Don Raffaello, il prete missionario con la passione per la doppietta

Tra le foto appese alla parete della canonica di Bonavicina, frazione di San Pietro di Morubio, se ne scorge una, scattata oltre trent’anni fa, che lo ritrae a cavallo, con il fucile sulla spalla, tra due peones (braccianti-agricoli), mentre in Uruguay ritorna da una battuta di caccia al capibara, un grosso roditore del Sud America. Ha festeggiato i 50 anni di sacerdozio don Raffaello Serafini, il prete-cacciatore attento ai bisogni delle popolazioni più povere del mondo, come quella del Madagascar che da 25 anni aiuta attraverso il Progetto Salomè. A festeggiare il sacerdote 74enne, accanto a sua madre Zaila Bonfante, che compirà 102 anni il prossimo dicembre, ai suoi sei fratelli, Giovanna, Paolo, Raffaella, Daniela, Carla e Maria Rosa, ed ai numerosi fedeli c’erano pure Corrado Vincenzi, sindaco di San Pietro di Morubio, Loreta Isolani, primo cittadino di Roverchiara, paese d’origine di don Serafini, e Francesca Rigo, vicesindaca di Villa Bartolomea, dove don Raffaello fu per alcuni anni il curato.

Don Serafini, come il don Camillo di Giovannino Guareschi, è un appassionato cacciatore. Non le vengono i rimorsi a sparare a delle creature di Dio? 
Anche nel libro della Genesi (10,9) il personaggio di Nimrod, discendente di Noè, viene celebrato come «valente cacciatore davanti al Signore».

Citazioni bibliche a parte, quando le nacque la passione per la doppietta? 
Me la trasmise mio padre Bruno, morto nel 2006, fin da quando ero ragazzino. A 18 anni ero in seminario quando ottenni la mia prima licenza da cacciatore, con il placet dell’allora rettore monsignor Andrea Veggio. Lo stesso prelato, anni dopo, mi consigliò di non girovagare per i campi imbracciando il fucile: il parroco di un paese vicino al mio non lo riteneva consono per un sacerdote.

Possiede ancora la licenza di caccia? 
Sì e la rinnoverò il prossimo mese di agosto. Attualmente, però, sparo si e no un paio di cartucce all’anno, andando con qualche parente più stretto nelle zone riservate a questa pratica nella Bassa, dove si trovano le lepri. Amo stare a contatto con la natura e camminare.

Sparava anche quando era in missione? 
Certo, ricordo che in Uruguay, negli anni Novanta, quando potevo, andavo a caccia di pernici.

Al di là della caccia, ha mai praticato altri sport? 
Eccome. Fin da giovane ho giocato a pallavolo. Nei vari paesi dove ero stato inviato come curato, tra il 1973 e il 1985, ho creato e allenato squadre di volley: a San Massimo, a Villa Bartolomea e a Sanguinetto. Mi piace la bici da corsa ma da tre anni non pedalo più a causa di qualche acciacco. Fino all’età di 33 anni ho praticato ciclismo agonistico nell’Udace.

Veniamo alla sua vocazione sacerdotale, quando sentì «la chiamata di Dio»? 
A 10 anni, a Roverchiara, vidi sulla rivista Nigrizia la foto del padre comboniano Guglielmo Miglioranzi ( nato nel 1923 e morto nel 1995) in missione. Era seduto al tavolino ed al suo fianco aveva, manco farlo apposta, un fucile. Mi piacque molto quell’immagine e decisi che avrei fatto il missionario, anche se poi, in seminario, optai per fare il prete diocesano.

Don Raffaello, lei è considerato un prete anticonformista che ha sempre amato stare in mezzo alla gente ed aiutare gli ultimi. È vero? 
Non sono sicuramente un sacerdote da sacrestia: a Correzzo, frazione di Gazzo Veronese, mi trovavano più fuori tra i parrocchiani che in canonica. Sono sempre andato dove c’era più bisogno del mio supporto. Tanto nel 1985, quando il vescovo di allora mi chiese di guidare la parrocchia di San Pietro in Valle per la quale non trovava preti disponibili, quanto a Vichadero, in Uruguay, dove vissi dal 1991 al 1997 nella missione diocesana.

Esperienze forti durante il suo sacerdozio? 
Nel 1977 incontrai a Rimini, con alcuni adolescenti che seguivo, il compianto don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII. La nostra amicizia durò diverso tempo.

Da 25 anni è l’anima del Progetto Salomè in Madagascar, come sta procedendo? 
Prima del Covid volavo nell’isola africana due volte all’anno, presto riprenderò le mie visite. Il nome deriva da suor Salomè Rader, religiosa di origine argentina (ma i suoi avi sono nati nel Vicentino, sull’Altipiano di Asiago) che avevo conosciuto in Uruguay: lei e le consorelle si occupano della missione di Ambodivona, che sosteniamo con offerte e con l’impegno di 50 volontari. Dal 1998 abbiamo concretizzato tanti interventi: dal centro polivalente per le attività pastorali a 15 pozzi per l’acqua potabile, passando per cinque case per mamme sole e ad una scuola per bambini con gravi difficoltà. Ad un plesso elementare hanno dato il mio nome. La targa esterna, in un misto di francese e lingua locale, recita: «Mon Pera Rapahelo» (A padre Raffaello, ndr).

I prossimi progetti?
Stiamo costruendo attualmente una scuola per bambini con gravi difficoltà. Il progetto, realizzato con l’aiuto economico della Conferenza episcopale italiana, garantirà un nuovo servizio essenziale alla missione africana. Confido sempre nella generosità delle tante persone ed imprese del Veronese, e non solo, che ci hanno sostenuto nelle opere realizzate in 25 anni di solidarietà.

Fabio Tomelleri
Fonte: www.larena.it          articolo