Re: perche' solo uomini?????
IL CORPO DELLE DONNE: LE RADICI DEL SACRO
di Micaela Balìce
Inanna ornò il suo capo con la shugurra, corona della steppa.
Si recò al chiuso, dal pastore.
Si addossò al melo.
Così addossata al melo, agli occhi era superba la sua vulva.
Fiera della sua vulva, la giovinetta Inanna plaudì a se stessa.
(Il mito sumero, D. Wolkstein e s. Noah Kramer)
Sono passati quattro millenni da quando le sacerdotesse della Dea Inanna cantavano queste rime per ricordarne le gesta.
Sono passati più di quattromila anni da quando esporre il proprio corpo e vivere una sessualità libera al femminile non era reato, non recava scandalo e probabilmente rappresentava un'espressione di sacralità della donna come donatrice di vita.
A testimonianza di ciò, come ha fatto rilevare il prezioso lavoro di Marija Gimbutas, le Veneri: piccole statuette del tardo Paleolitico che rappresentavano formosi corpi femminili probabilmente utilizzate a scopo votivo per celebrare la fecondità e la fertilità.
Se pensiamo ad un'Era che oggi noi consideriamo “poco evoluta”, come quella rappresentata dagli albori della nostra storia, anzi: che non viene neppure ammessa nell'albo della storia stessa ma relegata ad un periodo pre, la preistoria, dobbiamo ricrederci dopo una più attenta analisi sulla capacità di lettura dell'esistenza che i nostri progenitori avevano.
Società matrilineari (oramai la matriarcalità è stata bandita dalle terminologie degli studiosi perché è stato ampiamente dimostrato che le antiche culture non erano una versione del patriarcato al femminile ma delle vere e proprie società liberali con linearità di discendenza materna), società matrilineari – dunque – erano alla base di questi popoli, in grado di trasmettere attraverso la molteplice magia del corpo femminile, il senso della Vita e della Morte, ovvero il ciclo della natura.
Tale ciclo vitale nella nostra cultura estremamente progredita viene continuamente rinnegato: si cerca di produrre alimenti senza terra, di sterilizzare la terra stessa con arature e protesi chimiche per poterla poi fecondare a piacimento nelle monocolture a discapito della biodiversità che si tenta di ricostruire in laboratorio, si nega la morte con il miraggio farmacologico di una vita prolungata sinteticamente, si cerca di controllare allo stesso modo la donna e i suoi cicli biologici con una medi-calizzazione sovente eccessiva, senza scampo, senza alternative: dal menarca, alla gravidanza al parto (oramai ospedalizzato) fino alla gestione farmacologica anche della menopausa.
L'utero della donna – il suo umido ventre sede della vita e di quella magia primordiale che ha condotto la specie umana fino a noi - è luogo di controlli, di mani inguantate che tastano, palpano, giudicano, massificano senza un possibile e reale confronto con quello che io chiamo il Clan delle donne.
Ridurre a carne il corpo femminile è un atto desacralizzante che è stato compiuto millenni fa, quando – come ben attesta il lavoro di Merlin Stone, When God was a woman (mai tradotto in Italia), l'antico politeismo che già stava sostituendo l'arcaico culto della dea, fu definitivamente rimpiaz-zato dal monoteismo maschile che necessitava per legittimarsi senza ombra di dubbio, di una discendenza riconducibile solo al patriarca, al padre.
Come uscire dalla matrilinearità, dove la gravi-danza è segno evidente e tangibile di appartenenza del bambino a quella linea materna, per dare potere, fornire lo scettro ad una discendenza al maschile che rimane sempre dubbia?
La soluzione fu trovata nella demonizzazione del corpo femminile: Inanna divenne la meretrice di Babilonia, l'amore sessuale – fonte nei riti misterici di suprema conoscenza e di benedizione feconda per la comunità – si ridusse a prostituzione, tanto che ancora oggi non esiste un termine che descriva la sacralità di queste unioni se non quello di affiancare alla voce mercificatoria “prostituzione” l'aggettivo “sacra”.
La scissione del femminile in due parti distinte, meretrice e madre, fu legittimata con un colpo netto di spada: per garantire la discendenza patrilineare bisognava acquisire una donna vergine e non permetterle di avere altri rapporti con nessun altro uomo.
Per convincerla il divino divenne severo e condannò come laide lascive frivolezze ogni istinto vitale del femminile, coprì con i veli il suo corpo, con la reclusione la sua anima, con la pena della lapidazione ancora presente i suoi slanci di libertà.
Lilith fu bandita dal regno di Adamo e al suo posto fu generata Eva, colei che in un'apparente sottomissione conservò un infimo seme ribelle che condurrà alla dannazione la specie umana condannandola al dolore e alla morte (mentre della debolezza di Adamo non si fece cenno).
Per giungere a noi, al corpo delle donne oggi così martirizzato nei secoli e nella storia, l'unica speranza di recuperare un sano rapporto tra i sessi, tra i corpi, e di superare quella violenza scontata, facile, sempre in agguato, sovente nascosta e così comune da non venire neppure denunciata o quasi percepita come violenza, è – a mio avviso - quello di avviare una profonda rivoluzione concettuale, di concedere il ritorno a Lilith, di consentire l'unione delle parti che ci compongono, che compongono il corpo, la mente e lo spirito delle donne: la madre e l'amante.
Una rivoluzione concettuale che ci permetta di riconoscere la sacralità del mondo femminile, della sua attitudine alla creatività non solo biologica ma anche di pensiero, intellettuale, artistica.
Di concedere la gioia al divino di deliziarsi con l'antica Sapienza ... e senza peccato.
Lilith, l'affine creatura, la pari sposa
ciò che manca all'uomo perché non si penta
ciò che manca alla donna affinché sia.
(“Il ritorno di Lilith”, Joumana Adad)