COPIO ED INCOLLO
I cacciatori di tutto il mondo vantano esperienza, confondendola spesso con la sapienza, arrivando ad omologarla alla scienza.
La prima è un retaggio della antica figura del cacciatore, oggi quasi scomparsa per le mutate condizioni sociali ed ambientali, che ha lasciato il posto a quello che io chiamo “praticante inurbato”, cioè il cacciatore residente nei grandi centri urbani, che vive la caccia come intermezzo alla quotidianità e si limita a raccogliere ciò che la “provvidenza” gli concede, se migratorista, oppure, se stanzialista, il frutto di ripopolamenti più o meno assennati, stabilendo così un rapporto con l’ambiente che si limita allo sterile prelievo.
E se, come sempre più spesso accade, non trova nulla, se la prende con la politica venatoria quasi fosse un concetto astratto che non gli appartiene, convinto che la caccia sia un diritto per il semplice motivo che ha pagato una concessione governativa o una tessera associativa dimenticando, al contrario, che la sua licenza è frutto di una concessione al prelievo che, la società così detta civile, gli offre in cambio di una gestione della fauna omeoterma.
Sentirsi fermamente titolare di un diritto, lo porta spesso ad arrogarsi la proprietà della selvaggina, al punto di chiedere persino la chiusura della caccia all’estero perché, secondo “lui”, erode i “suoi” carnieri italiani, come se il principio che riconosce le specie selvatiche, un bene dell’umanità, valesse zero.
Questo “esperto” cacciatore, che confonde il passo con la migrazione, è abituato a misurare la consistenza della selvaggina basandosi sui carnieri che realizza, in rapporto a quelli evocati dalla memoria dei “vecchi” che, a loro volta, si ammantano di glorie venatorie, magnificando il passato.
Così, non sapendo quali pesci prendere, o forse sarebbe meglio dire uccelli, il nostro cacciatore scarica su presunte colpe di altri le sue frustrazioni, ed in particolare su quelli che, secondo lui, fanno strage di migratori oltre confine arrivando a chiedere, con follia nazionalista, la chiusura della caccia all’estero o la limitazione dei viaggi venatori.
Buffo poi, che in casa, sia sempre lui a perorare la “mobilità” interna, cioè libera caccia in libero territorio. In pratica, dopo aver terminato di prelevare la selvaggina migratoria al Nord, andarla a prendere al Sud, per il semplice motivo di essere italiani.
Però, in Europa, pretende calendari uguali per tutti, alla faccia del passo.
E per lo stesso motivo, spinto da uno spudorato nazionalismo, pretende che gli altri, quelli che vivono fuori dal territorio italiano, limitino il prelievo, come se fosse possibile determinare le scelte di nazioni sovrane.
Ora, a questo cacciatore, vorrei chiedere vestendo i panni del provocatore: hai mai provato a rovesciare la questione?
Mi spiego. Gli studi più recenti sulla beccaccia, ad esempio, hanno stabilito che quest’ultima è fedele alle aree di svernamento. Gli inanellamenti sono lì a dimostrarlo, così come le esperienze di chi frequenta questa caccia, abituato a trovare beccacce negli stessi posti a distanza di anni. Gli stessi studi affermano che, le popolazioni della Crimea, della Scozia e dell’Irlanda, sempre per fare un esempio, non transitano sul nostro Bel Paese. A questo dobbiamo aggiungere che, le stime riferite alla Francia e all’Italia, parlano di quote di abbattimento per la specie beccaccia attestate tra i due e i tre milioni di individui a stagione, mentre tutte le altre nazioni interessate dal passo e dallo svernamento della stessa popolazione di scolopax rusticola che frequentano queste due nazioni cugine, insieme, non superano la quota di cinquecentomila individui.
Ora io chiedo al mio cacciatore protezionista, nel senso di protezione del “suo” carniere”: e se un brutto giorno arrivasse la richiesta, da parte dei cacciatori che praticano la caccia alla regina del bosco in questi “altri” Paesi, di chiudere, o se preferite ridimensionare la caccia alla beccaccia in Francia e in Italia?
Che fai amico mio, non rispondi?
Giacomo Cretti
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