Dicembre. Fra questi boschi della Sologne la nebbia ammorbidisce i contorni degli alberi come il «caligo» veneziano coi palazzi settecenteschi del Canal Grande: e il quadro ha la malinconia d’un paesaggio di caccia in Scandinavia. Accanto al gran fuoco acceso, nella trattoria, il pelo bagnato dei miei cani fuma come un incensiere mentre dall’uscio della cucina, spalancato per la gioia dei golosi e per la tranquillità degli schifiltosi, giungono dense nubi di profumi sopraffini che accarezzano l’olfatto ed esasperano l’appetito: l’odore del tartufo si mescola con quello degli intingoli, il sentore delle spezie s’insinua nell’emanazione dell’arrosto che rosola solenne al lento giro degli spiedi.
Nelle cucine della Sologne non si cucina, si officia. Ed è rito antico, complesso, misterioso, in cui il noviziato può durare dieci, venti, trent’anni o magari tutta la vita. Qui, a Lamotte-Beuvron, il locale che mi ospita è considerato un tempio della gastronomia venatoria. Ed è qui che gli iniziati discettano interminabilmente di scuole e di tradizione, di mode e d’invenzioni, di conservatori e di rivoluzionari, sempre sul terreno della gastronomia più ortodossa e con particolare riguardo al settore cinegetico. È gente che vi dice con candida convinzione che solo un governo presieduto da un Brillat-Savarin avrebbe fondate probabilità di conciliare durevolmente le tesi politiche in contrasto (sempreché, aggiunge un tizio, Brillat-Savarin approfondisse adeguatamente gli studi sulla gastronomia venatoria ponendola, com’è suo diritto, al sommo della scala dei valori culinari).
Quando mi siedo alla tavola che mi è stata riservata, un gesto d’intesa del proprietario, cui ho riguardosamente presentato le mie credenziali, m’impedisce di ordinare. E la sfilata delle portate al mio pantagruelico desco si svolge secondo l’ordine seguente: luccio à la solognote (bisogna preparare razionalmente lo stomaco alla selvaggina, mi spiega il direttore), cotolette di pernice alla Maeterlink, fagiano sur canapé, perniciotti tartufati, terrina di selvaggina Lamotte-Beuvron (specialità esclusiva del locale, creata dopo sette anni di studio, dichiara il direttore) un assaggio di capriolo, dessert, frutta ecc.
Ebbi l’impressione che m’avessero scambiato per Lucullo redivivo e ne feci parola con gli amici degli amici che, uno tira l’altro, erano venuti cordialmente a sedersi intorno alla mia tavola. E mentre il mio stomaco cercava di orizzontarsi tra l’inusitata congerie di vivande onde l’avevo colmato, una larga e interessante discussione s’accese sui vini che m’erano stati serviti. Confesso che la causerie, intelligente e spigliata, mi divertiva anche per la novità della situazione. Per la maggior parte dei cacciatori, e un po’ anche per me, la caccia è innanzi tutto la voluttà di riempirsi i polmoni d’aria pura, di distendere i nervi, di sottoporsi a una fatica sana e corroborante, di ammirare il lavoro dei cani; e avevo sempre considerato poco attinente alla mia mentalità il piacere di concludere una mattinata di caccia con una spettacolosa colazione, com’è costume di certuni. Senonché qui la faccenda assumeva ben altro aspetto: una tremenda scorpacciata e una torrenziale bevuta; sì, ma innalzate al livello di una nobile manifestazione artistica e culturale. È un’altra cosa. Quando si mangia e si beve per arricchire il bagaglio delle proprie nozioni, non solo ogni eccesso è giustificato, ma si dovrebbe anche poter contare sull’ammirato apprezzamento del prossimo… Non è così?
Comunque, a un certo momento, il corso dei miei pensieri fu bruscamente interrotto da un’affermazione perentoria e aggressiva: – L’incontro fra il vino e la selvaggina, tuonava uno degli astanti, è come un incontro di pugilato dove tutto dipende da quello che picchia più forte.
Date le condizioni in cui mi trovavo, stavo per domandare se talvolta, in questo incontro, non tocchi al commensale di andare al tappeto. Ma l’immediata replica di un contraddittore non me ne diede il tempo.
– Vedo che al signore, disse costui accennando al sottoscritto, è stato servito, con il capriolo, lo Charmes Chambertin, tipo classico di vino corposo e potente; e ciò mi basta per concludere che in questo locale l’idea dell’incontro di pugilato domina sovrana. Si tratta, in effetti, di una teoria secondo la quale alla selvaggina da un lato e al vino dall’altro vengono assegnati due ruoli di protagonisti senza chiedere a nessuno dei due una onorevole capitolazione. Temo che a far le spese di questo combattimento debba essere il convitato, che viene a trovarsi al centro di una colluttazione in cui finisce per dover subire la consueta sorte del paciere. Mi si consenta di professare la mia fede in un’altra teoria che si riassume in poche parole di lapalissiana evidenza: mangiare del capriolo significa mangiare del capriolo, deve significare soltanto mangiare del capriolo. È semplice no? Se noi abbiamo dinanzi un piatto di ottimo capriolo in salmì, è a questo che spetta senz’altro la preminenza sulla tavola, e dovrebbe perciò essere protetto contro ogni proditoria aggressione anche se mascherata da allettanti seduzioni come nel caso di uno Charmes Chambertin. Non sarebbe stato preferibile un vino più tranquillo, più spoglio, più conciliante, meno impegnativo, il quale, rinunciando a priori a velleità combattive, si fosse accontentato di un modesto e pur prezioso ruolo di contrappunto in sordina?
Tutti sappiamo a memoria le regole tradizionali per cui alla selvaggina da pelo dovrebbero affiancarsi i vini che noi chiamiamo éclatants, mentre per i volatili andrebbero serviti i Borgogna della Cóte de Beaune, determinati Bordeaux o un Beaujolais. Questa è roba risaputa anche dai ragazzi delle scuole elementari. Ma scendiamo un momento sul terreno pratico e analizziamo senza troppa faciloneria i casi che possono presentarsi.
Ecco: prendiamo per esempio la pernice. C’è la pernice settembrina e c’è quella dei mesi successivi. Non commetterò certo l’indelicatezza di venirvi a ricordare quale profonda differenza esista fra l’una e l’altra: mentre la prima, quella dei primi giorni di caccia, tiene quasi del pollastrello, la seconda ha ormai assunto le caratteristiche gastronomiche della selvaggina. È mai possibile, signori, miei, associare lo stesso vino alla pernice settembrina e a quella novembrina? Sarebbe sacrilegio supporlo soltanto. E allora? Ma è chiaro come il sole: un Bordeaux crudo per la prima e uno Chinon o un Bourgueil o uno champagne rosso o un piccolo vino orleanese, tipo Gris Meunier, per la seconda, alla quale – lo vedo benissimo dalle vostre espressioni – voi vorreste opporre un gladiatorio Borgogna.
L’urto fra le due scuole, lo sapete meglio di me, assume toni decisamente drammatici dinanzi alla lepre all’imperiale che, per il fatto di contenere fegato d’oca, dovrebbe reclamare un vino bianco secchissimo secondo gli uni o un vino liquoroso secondo gli altri. E che dire della vecchia e non mai risolta questione del fagiano e della pernice in chartreuse, del fagiano e della pernice all’alsaziana? È forse pazzesco affermare che, meglio ancora dei consuetudinari Riesling, si dovrebbe affidare a uno champagne classico, stilizzato, diplomatico, il compito di sottolinearne il profumo?
Per me – amici, ho finito – il matrimonio fra vino e selvaggina deve conservare il suo originario carattere di matrimonio d’amore in cui il primo s’accontenti di rappresentare il sesso debole. Debole, ma necessario, s’intende…
Poi che l’ispirata allocuzione ebbe fine, fu il proprietario del locale ad alzarsi lentamente dalla sedia, poggiar le mani sul tavolo che lo divideva dall’oratore, protendersi verso di lui come per una sfida mortale e a bassa voce, sillabando come a dar più forza all’argomento che veniva ad esporre: – Troppo facile – esclamò – troppo facile, amico carissimo, girare intorno al perno del problema affrontandone soltanto i corollari. Ma come la mettiamo – e qui la voce s’elevò di tono con un crescendo quasi minaccioso – come la mettiamo, dico, con la beccaccia farcita allo spiedo? Che cosa ne dice, per esempio, il nostro amabilissimo cacciatore italiano?
L’amabilissimo cacciatore italiano lottava disperatamente contro il torpore che l’invadeva. Pernici, caprioli, fagiani, lepri, beccacce, anatre, cinghiali danzavano nel suo cervello ottenebrato un carosello infernale fra rivoli di vini bianchi e rossi, sentori di cucina, berretti bianchi di cuochi, esplosioni di champagne.
–        Io, risposi faticosamente, vorrei soltanto un mezzo chilo di bicarbonato.
 
Nino Cantalamessa Cacciatori si diventa Ed. Olimpia 2007 – Cod. 5070709
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