Il giorno esatto non me lo ricordo ormai sono passati 4 anni, ma ricordo vivamente tutto di quel giorno che decisi di addentrarmi da solo nella barena Chiogiotta in una fredda giornata di dicembre.
La sera prima il mio socio mi aveva dato buca e dovetti soffermarmi sul dilemma di andare o non andare da solo a caccia.
Da solo, senza barca, carico come un mulo da soma mi sarei dovuto addentrare nella parte di barena calpestabile per raggiungere la botte.
L’istinto prese il sopravvento la voglia di cacciare era troppa e decisi di andarci lo stesso, ogni volta che riuscivo a farmi accompagnare in laguna con la barca, anche se non prendevo nulla perché ormai distrutta dai bracconieri che di notte cacciavano con i richiami elettronici a tutto spiano, sognavo di epiche fucilate e di epici carnieri da poter raccontare come fossero leggende nordiche.
Preparai tutta l’attrezzatura, stampi, richiami a fiato che ormai le mie labbra e polmoni avevano consumato in quanto persino durante gli spostamenti di lavoro in auto mi esercitavo per essere perfetto nel momento fatidico di dover richiamare quei palmipedi che tanto bramavo, fucile, cartucce, vestiario, stivali alti, torcia per la testa e chi più ne ha più ne metta.
Cena veloce e di corsa a letto per riposare mente e corpo in attesa della sveglia che mi avrebbe allertato dalla mia notte insonne che l’ora di andare a caccia era giunta.
Alle 4:30 mi alzai, caffè e colazione, lavata veloce, vestizione, fucile e zaino e giù in auto, ultima check-list e mi diressi dove sorge il sole.
Appena arrivato scesi dall’auto, mi misi in cima all’argine che separava la terra ferma dalla mia meta e inspirai e pieni polmoni l’aria fredda salmastra e osservai il cielo stellato con la luna piena, limpido e cristallino, poi l’udito ebbe il sopravvento su quella celestiale visione e incominciai a sentire gli immancabili richiami elettronici riecheggiare da tutte le direzioni con le immancabili fucilate occasionali.
Già sapevo il finale di quella giornata, ma in cuor mio ancora speravo quindi mi caricai tutto in spalla e incominciai a inoltrarmi nella barena verso la botte.
Arrivato calai gli stampi: 4 Germani, 6 Alzavole, 2 Fischioni e un mojo di Germano mi diressi alla botte e mi accorsi che nonostante i miei continui svuotamenti si era riempita di nuovo di acqua fino alle ginocchia.
Mi sistemai alla meglio anche se avevo le gambe in ammollo e il cruscotto dell’auto mi segnava 0° Celsius.

A quel punto ero io e basta, in attesa dell’arrivo di Apollo che avrebbe dato il via alla giornata di caccia, c’era solo la luna e le stelle a farmi compagnia.
Dopo un po’ di tempo che ero fermo il freddo cominciò a farsi sentire, i denti iniziarono a battere e ogni cellula del mio corpo mi stava urlando di tornare a casa perché tanto non avrei visto e preso nulla.
Ma io volevo rimanere lì, non volevo darla vinta a coloro che ogni notte rovinavano il posto a tutti gli altri che volevano assaporare la poesia della caccia in barena.
Ad un certo punto posai lo sguardo al cielo e vidi una stella cadente, la prima da 10 anni, e lì mi resi conto che nella frenesia della vita avevo smesso a osservare ciò che mi circondava, avevo perso la visione dell’insieme, non era l’obiettivo il fine, ma il viaggio e capì che se avessi voluto cacciare anatre non avrei dovuto fossilizzarmi in quel modo, ma andare a cercarle dove avrei potuto prenderle “nel modo giusto”.
Rimasi per ammirare quell’alba che sempre mi ha fatto scordare per quei 30 minuti la quotidianità che mi attendeva ogni giorno, i colpi dalle valli private iniziarono a riecheggiare come le più cruente battaglie della Prima guerra mondiale, rimasi in attesa fino alle 10:00 senza vedere nulla per poi tornare all’auto.
Arrivato sopra l’argine mi voltai e osservai per l’ultima volta la barena dandole non un addio, ma un arrivederci fino a quando coloro che stavano rovinando quell’affascinante caccia si sarebbero resi conto di ciò che stavano perdendo.
Oggi, le mie anatre le ho prese e ognuna di esse, per me, vale molto di più di qualunque numero fatto in quelle barene dove la poesia si è spenta nell’uso di quelle maledette macchinette.

 

Autore del racconto
Francesco (Pdor)

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“Da quanti anni ha smesso di fumare?”
“Piu’ di dieci.”
“Bene. E beve?”
“In moderazione. Non piu’ di un bicchiere di vino al giorno, magari una birra o due ogni tanto.”
“Be’, la situazione e’ questa: ci sono stati danni irreparabili al muscolo cardiaco. L’operazione che le abbiamo fatto dovrebbe evitare futuri inconvenienti, ma lei deve fare la sua parte.”
“Cioe’?”
“Deve cambiare radicalmente la sua dieta, fare un po’ d’esercizio moderatissimo ogni giorno, perdere peso, evitare qualsiasi attivita’ stressante, e prendere le medicine che le ho prescritto ogni giorno. A vita. Non le nascondo che lei ha preso una bella batosta e deve stare attentissimo a non strafare, a non affaticarsi, a riguardarsi il piu’ possibile,ad evitare il freddo. Una passeggiata lenta di un chilometro ogni pomeriggio quando il tempo e’ bello, o se fa brutto tempo rimanga a casa e faccia un po’ di bicicletta da palestra, ma se nota che il ritmo cardiaco accellera troppo si fermi e si riposi un po’ prima di continuare…”
“Insomma, dottore, mi sta dicendo che devo fare una vita da invalido? Io ho soltanto cinquant’anni.”
“Da invalido no, ma da persona con una notevole insufficienza cardiaca. In fondo puo’ vivere una vita del tutto normale , anche se si deve privare di alcune cose non essenziali…”
“Dottore, capisco che forse a lei sembrera’ una sciocchezza, ma pensa che potrei continuare ad andare a caccia?”
“Non glielo consiglio proprio. Fra levatacce, freddo, pioggia, e inerpicarsi su terreni scoscesi sarebbe una follia andare a caccia. Inoltre se si sentisse male mentre lei e’ in un bosco o in una palude, magari da solo, che cosa potrebbe fare? Chi potrebbe soccorlerla? Non le e’ bastato quello che le e’ gia’ successo?”

Antonio aveva lasciato la macchina su una stradina mezzo allagata vicina al lago dove aveva il suo capanno per le anatre. Con un saccone pieno di stampi che gli sbatteva sui polpacci mentre camminava e con lo schioppo in spalla s’era avviato a buio pesto verso il capanno sotto una pioggia battente, muovendosi a fatica nel fango molle ed insidioso della palude. Oggi pero’ il tragitto gli sembrava piu’ lungo e piu’ faticoso, il saccone piu’ pesante del solito, e a meta’ strada aveva cominciato a sentire delle strane fitte all’altezza dello sterno. “Ho mangiato troppo a colazione,” aveva pensato, ma poi s’accorse che il cuore gli batteva forte, troppo forte, e come se gli fosse salito in gola. Si fermo’ a riprendere fiato, ma gli ci vollero quasi dieci minuti prima che potesse continuare a camminare. Arrivo’ al capanno madido di sudore freddo, appiccicoso, che sulla fronte gli si mescolava con la pioggia che continuava a venire giu’. Si sedette sulla panca del capanno per riposarsi un po’, e poi si rialzo’ per disporre gli stampi, ma il capanno comincio’ a girargli intorno come una giostra, un fiotto di nausea gli afferro’ la gola ed una lama arroventata lo pugnalo’ nel petto.

Era giorno fatto quando rinvenne, bagnato fradicio, nel fango molle davanti al capanno.Il cuore gli batteva una sarabanda infernale nel petto, e gli sembrava che un cappio gli stringesse il collo. Lascio’ il saccone degli stampi nel capanno, ed usando il fucile come un bastone, che’ le gambe non lo reggevano bene, ritorno’ chissa’ come alla macchina. ..
Ricovero d’urgenza, TAC, analisi varie, e poi il giorno dopo sotto i ferri. Lui che non si ammalava mai neanche di un raffreddore!

“Che ha detto il dottore?” gli chiese sua moglie quando ritorno’ a casa. “Che devo morire!” rispose Antonio con una risatina forzata, facendo finta di essere di buon umore. Ma un dolore quasi peggiore di quello dell’infarto che gli era venuto a caccia gli trafiggeva il cuore mentre guardava l’armadio dei fucili, dove il suo automatico, che Sandro, suo figlio, aveva ripulito dal fango e oliato bene, era riposto insieme ad una doppietta ed una carabina. “Ha detto che mi devo riguardare e che se faccio quello che dice lui campero’ altri cent’anni.” Ma dentro pensava: “E chi vuole campare cent’anni senza andare piu’ a caccia?”
“E che cosa ti ha raccomandato di fare?”
“Niente di eccezionale. Dieta, ginnastica, riposo, medicine. Le solite cose.”

Un anno di noia e di amarezza passo’ lentamente, troppo lentamente. La caccia si chiuse, poi si riapri’, e i suoi amici cacciatori non parlavano di altro. Antonio li evitava il piu’ possibile. Ogni pomeriggio, dopo l’ufficio, faceva la sua passeggiatina , o se il tempo era brutto rimaneva a casa ed usava la bicicletta da palestra proprio come gli aveva detto il dottore. Il fine settimana arrivava, e se ne andava. E poi un’altra settimana uguale a quella precedente e a quella che sarebbe venuta dopo. Ma se almeno si fosse sentito bene! Si sentiva debole, gli veniva spesso l’affanno, digeriva male anche i cibi senza sapore e senza sostanza che doveva per forza mangiare, aveva sempre sonno di giorno e non riusciva a dormire la notte. Alle tre di mattina accendeva la luce sul comodino, sua moglie grugniva e si girava dall’altra parte senza svegliarsi, e Antonio passava le ore antelucane leggendo un libro o una rivista e sospirando.

Una mattina si alzo’ all’alba. Si mise la vestaglia pesante e usci’ sul balcone. Era una mattina d’autunno, l’aria era inebriante, ripulita dalle mille puzze di citta’ da una tramontanina leggera ma costante. Volse lo sguardo in alto. Appena appena visibile contro il cielo rosa una V di anatre si dirigeva verso il padule lontano, che non era mai stato cosi’ lontano come lo era adesso. Rientro’ in casa, ando’ in bagno e si guardo’ allo specchio. Era invecchiato di dieci anni in un anno. I capelli gli si erano ingrigiti, il volto era pallido ed esangue, rughe profonde erano apparse intorno agli occhi e ai lati della bocca. Antonio si sedette sul bordo della vasca con la testa tra le mani. “Io sono gia’ morto,” penso’. “Sono gia’ morto per la paura di morire. Una morte continua, travestita da vita. E che importa se respiro, se mi muovo, se mi vesto e vado a lavorare, se parlo con mia moglie e con mio figlio? Come fanno a sopportare un morto dentro casa? Se devo essere un morto che cammina e che parla, allora e’ meglio essere un morto veramente morto!”

Antonio indosso’ i suoi abiti da caccia, ando’ in garage, prese una dozzina di stampi e li stipo’ nel saccone ed il saccone nel baule dell’auto. Poi torno’ a casa, tiro’ fuori l’automatico dall’ armadio e prese due scatole di cartucce. “Ritaaa!” grido’ dall’ingresso. “Chiama il mio ufficio e di’ a chi risponde che oggi non mi sento bene e che rimarro’ a casa. Ciao, ci vediamo stasera,” e usci’ di fretta prima che la moglie gli potesse chiedere dove stava andando.

Sandro, seduto sul divano, stava mostrando a Giorgino, suo figlio, un album di fotografie. Erano all’ultima pagina. “Mamma mia! E chi e’ questo con tutte queste anatre morte? Sei tu, papa’?” La foto era un po’ sbiadita, ed il volto del cacciaore era oscurato dal cappello.
“No, Giorgino, quello era Nonno Antonio quando aveva cinquantun anni. dieci anni fa. Dopo piu’ di un anno senza andare a caccia, la prima volta che usci’ fece una strage.”
“E questo chi e’?” Ma prima che Sandro potesse rispondere il telefono squillo’.

“Si’ certo, alle cinque. Non ti proccupare. D’accordo. No, non succedera’ di nuovo. Stavolta metto due sveglie sul comodino cosi’ mi alzo di sicuro. Ciao. A domani.”

“Chi era?” gli chiese Doriana, sua moglie.
“Era papa’, chi altri? Ma come gli va di andare a caccia tutti i giorni? Io non gliela faccio piu’ ad andargli appresso a gelarmi il culo nel capanno. Non vedo l’ora che chiuda la caccia cosi’ un fine settimana finalmente mi riposo!”

(NOTA: Questa mia storia–ispirata dall’infarto che ebbi mentre cacciavo le anatre nel mio capanno su Kalsin Lake, a Kodiak, in Alaska–apparve in una collezione di storie di caccia raccolte da Lina Finocchiaro nel volumetto “I Racconti dell’Osteria” insieme ad altri racconti scritti da me e da altri membri di un forum ormai, purtroppo, scomparso, l’Osteria del Tavolaccio.)

Autore del racconto
AL
[email protected]

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