SPIEGARE LA CACCIA. IL RUOLO DELL’ATTIVITÀ VENATORIA NELL’ EPOCA DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA

Oggi la maggioranza delle persone con una minima sensibilità nei confronti dell’ambiente, escludendo le frange più estremiste (animalisti, vegani ecc.), preferisce mangiare, a parità di prezzo, un prosciutto di maiale allevato allo stato brado anziché di uno allevato in un capannone. Allora perché, nonostante questo, fa fatica a giustificare l’uccisione di un cinghiale (selvatico), che fra i tre è senza dubbio quello che ha vissuto in maniera più estensiva e meno impattante (da un punto di vista ambientale)?

C’è una separazione sempre più netta tra ciò che viene considerato artificiale e ciò che si considera incontaminato, tra antropico e selvaggio, tra urbano e rurale, tra uomo e natura… Una separazione che ci fa pensare a essa come un’entità che esiste senza di noi, che si autoregola e che va preservata da qualsiasi nostra attività. Ci è concessa solo l’osservazione, meglio ancora se attraverso lo schermo della TV. Eppure anche la TV, così come qualsiasi altro oggetto artificiale, è composta da elementi raccolti in natura.

Si pensa che gli animali allevati siano qualcosa di creato dall’uomo col fine della macellazione, quasi fosse un loro destino, dimenticandoci che essi sono il frutto di migliaia di anni di addomesticamento di animali selvatici e conservano, quindi, i loro bisogni biologici e istintivi proprio come i loro “liberi cugini”. Di fronte al banco del supermercato ci dimentichiamo di cosa viene prima del processo di impacchettamento di quegli ammassi di proteine privati del pelo, della pelle, del sangue e degli occhi, puntando il dito solo contro quello che ci appare più diretto; e cos’è più diretto dell’uccidere con la propria arma un animale!?

La caccia non può essere considerata né uno sport, né un passatempo. La caccia è utilizzo di risorse naturali rinnovabili, regolamentato al fine di garantire la sostenibilità tra prelievo e conservazione delle specie animali. Insieme a questo ci sono sicuramente l’aspetto ludico e l’aspetto sportivo, inteso come esercizio salutare per il corpo, ma non possono essere queste le giustificazioni da usare oggi per difendere la caccia.

Chi non la pratica fa molta fatica a capire “come ci si possa divertire a uccidere un animale”, ma questo è un aspetto direttamente correlato al nostro impiego della carne come fonte alimentare primaria, dall’epoca in cui eravamo semplici cacciatori-raccoglitori. Uno dei più grandi biologi evoluzionisti dei tempi moderni, E. O. Wilson, ci descrive come “una civiltà da guerre stellari, con emozioni dell’età della pietra”; un altro grande antropologo, Y. N. Harari, scrive: “non c’è niente, nell’esistenza confortevole della borghesia urbana, che possa avvicinarsi al vivido eccitamento e alla pura gioia sperimentata da un branco di nomadi in una caccia fortunata a un mammut”.

Il divertimento derivante dalla cattura di una preda non è altro che un rilascio di ormoni (adrenalina, noradrenalina, dopamina ecc.) stimolato dalla nostra indole predatoria, evoluta in milioni di anni e radicata nei tratti del nostro DNA più antico, chiamati Ancient DNA. Gli stessi che un attimo dopo averla presa tra le mani, infondono in noi profondo rispetto, pena e gratitudine…(nella maggior parte delle culture venatorie esiste il rito del saluto alla spoglia). Non c’è nulla di sadico, niente legato alla derisione e allo scherno di un animale ucciso per elevare il nostro ego, per sentirci superiori. L’eccitamento è finalizzato a darci la spinta per concludere un atto di conquista, senza il quale non avremmo potuto nutrirci, sviluppando il nostro cervello fino a diventare uno dei più complessi ed efficienti del mondo animale. La voglia di condivisione deriva dalla consapevolezza che questa preda potrà nutrire l’intero gruppo al quale apparteniamo (ora amici e familiari). La sensazione è la stessa di quando siamo a cercar funghi e il nostro occhio si posa su una maestosa “cappella” di porcino, tanto per fare un esempio.

Quello che però tutti possono capire, è il perché si possa preferire uccidere e mangiare carne di un animale selvatico piuttosto che di uno allevato (soprattutto intensivamente) e il ruolo che la caccia ha nella conservazione della fauna selvatica.

Un animale selvatico, fino al momento della morte, vive in libertà e compie il proprio ciclo biologico, con la garanzia del più grande benessere di cui possa godere. La sua crescita, inoltre, non impatta in alcun modo sull’ambiente naturale, poiché esso non necessita di mangimi industriali e non inquina con i suoi reflui l’ecosistema circostante. Si può dire, quindi, che la caccia, se pur in piccola percentuale, può sostituire un certo tipo di allevamento riducendo l’impatto ambientale da esso derivante, in termini di gas serra, di scarti industriali, di reflui e di consumo di suolo per dare spazio a pascoli o a colture foraggere o cerealicole. L’attività venatoria non prevede alcuna trasformazione dell’ecosistema a discapito degli habitat naturali, anzi, semmai, interviene con miglioramenti laddove ci sia un piano di ripristino ambientale; inoltre non costringe in alcun modo gli animali a modificare in parte o del tutto il proprio comportamento, confinandoli o impedendogli di riprodursi o accudire la prole. Ricordiamo che la direttiva europea vieta la caccia nei periodi di riproduzione e di dipendenza della prole dai genitori.

L’arma che uccide, il fucile, che molti vedono come strumento imparziale, che non lascia scampo, associato alla guerra, non è altro che il processo di efficientamento della lancia e dell’arco; uno strumento che permette di scagliare a distanza e a elevatissima velocità una munizione in grado di uccidere, proprio come una freccia. Col vantaggio, però, che sicuramente reca molta meno sofferenza agli animali e permette di ferirne molti meno, che morirebbero dopo ore o giorni in agonia. Rispetto a tutti gli altri predatori, i cacciatori umani arrecano la morte più rapida e indolore. Nonostante questo, il nostro successo predatorio, calcolato come rapporto tra volte in cui si cattura la preda e volte in cui la si tenta di prelevare, è uguale se non minore a quello di alcuni dei grandi predatori terrestri o marini (leone, ghepardo, coccodrillo, orca, squalo ecc.).

Infine, un animale selvatico offre una carne molto saporita e salubre, priva di antibiotici, ormoni anabolizzanti ecc.

Tutto questo pone come fondamento la conservazione delle specie cacciabili. Ovviamente si tratta sempre di specie in buono stato di salute, ampiamente diffuse e con popolazioni stabili. Talvolta di specie riproducibili anche in allevamenti appositi (da ripopolamento). Va precisato che la direttiva europea impedisce anche a tutti gli Stati membri di cacciare specie classificate come “vulnerabili” o “in pericolo”.

Pensiamo ad una popolazione animale vitale proprio come fosse un albero. Se tagliamo un ramo, l’albero non muore. Se ne tagliamo alcuni, secondo un criterio ben preciso, applichiamo una potatura che rende la pianta più vigorosa e produttiva. È grazie al fatto che la pianta produce frutti che noi mangiamo, che ci adoperiamo a potarla, a concimarla, a trattarla con i fitofarmaci e, soprattutto, a diffonderla nel territorio piantandola in nuovi spazi. Lo stesso vale per gli animali. Le specie animali genericamente definite erbivore, si sono evolute insieme a quelle dei loro predatori, regolando la propria struttura demografica grazie ad essi. Il ruolo ecologico della predazione è proprio quello di contenere le popolazioni delle specie preda affinché non superino quella che viene definita capacità portante dell’ecosistema; ovvero non arrechino, a causa della loro eccessiva abbondanza, un danno irreversibile all’ambiente in cui vivono. Questo, a sua volta, provocherebbe malattie epidemiche derivanti dal mal nutrimento o dalla mancanza di una qualsivoglia risorsa, consumata al punto di impedirne il rinnovo. Allo stesso modo, aiutiamo le specie in difficoltà migliorando l’ambiente in cui vivono, contenendo le specie antagoniste, effettuando ripopolamenti o reintroduzioni laddove la specie è in declino, studiando le dinamiche delle popolazioni attraverso progetti di ricerca.

È necessario uccidere per preservare? È utilizzando le risorse che poniamo l’interesse sulla loro conservazione. Senza utilizzo, non c’è tutela, ma solo abbandono e degrado.

Poter uccidere un animale significa senza dubbio essergli grato e impegnarsi affinché quella risorsa, che ci dona la vita, possa perpetuarsi nel tempo. L’abbondanza e la prosperità delle specie cacciabili è infatti il desiderio di ogni cacciatore/predatore per poter proseguire ad andare a caccia…Va sottolineato, infatti, come ci siano moltissime iniziative del comparto venatorio volte a promuovere studi di ricerca sulla fauna selvatica, reintroduzione o ripopolamento di specie oggetto di prelievo venatorio, contenimento di specie invasive e/o opportunistiche, ripristino e/o miglioramento degli habitat, pulizia dai rifiuti, mantenimento dei sentieri ecc.. Non parlo dei lanci pronta caccia fatti per accontentare qualche cacciatore all’apertura, ma progetti seri, in collaborazione con Associazioni ambientaliste, Amministrazioni pubbliche, Enti pubblici, ISPRA, Università ecc. La caccia, in modo apparentemente paradossale, pone l’attenzione su specie che sarebbero altrimenti dimenticate, poiché prive di altro interesse, garantendone la tutela e la conservazione. I cacciatori, primi fruitori e utilizzatori della selvaggina, si impegnano da sempre alla cura del territorio affinché questo sia più ricettivo possibile. Un esempio, trai tanti, è la creazione dei laghi da caccia, dove sostano e nidificano migliaia di uccelli, anche non oggetto di caccia. Ecosistemi mantenuti dai cacciatori dove prosperano forme di vita legate all’elemento acqua, la cui presenza viene assicurata dall’uomo per tutto l’arco dell’anno. L’uomo, pur prelevando un certo numero di anatidi, contribuisce a mantenere in vita moltissimi di loro, insieme a centinaia di altre specie. L’uso di una risorsa rinnovabile è l’assicurazione più importante per garantirne la sua conservazione. Dove e quando questi laghi sono stati trasformati in aree protette, perdendo il ruolo della specie homo sapiens, non sempre l’ecosistema ne ha beneficiato, degradandosi e perdendo molta della sua originaria biodiversità.

Ecco come, alla fine, la caccia ci aiuta a mantenere quel legame con la natura che molti di noi hanno dimenticato. Molti paesaggi, molti ecosistemi e di conseguenza molte specie esistono anche grazie all’intervento dell’uomo sull’ambiente. Anche noi, animali umani, facciamo parte della natura; alzare sempre più quel muro apparente che ci divide, non farà altro che allontanarci sempre più da quel mondo rurale di cui abbiamo fatto parte fino a “ieri”. Pensare di volerla difendere impedendoci anche solo di toccarla con un dito, non farà altro che fare del male a noi e a lei.

La carne che offre un animale cacciato ucciso in forma diretta, consapevole, regolata, non si maschera dell’illusione che un piatto di cereali non abbia invece alcun impatto sulle specie viventi; un campo coltivato modifica un ambiente sottraendo l’habitat di molte specie e di quelle che da esse dipendono, animali compresi. Avete mai visto, per esempio, arare un campo? Avete notato quanti piccoli mammiferi, rettili, anfibi, insetti (e loro larve) perdono la vita? E avete notato come un attimo dopo si presentano puntuali molti tipi di uccelli quali corvidi, aironi, gabbiani ecc. a banchettare?  Ogni nostra azione, anche se relegata all’interno delle “mura” cittadine, ha un’influenza sul grande e unico sistema aperto che è la Terra. O accettiamo di farne parte, o celebriamo la nostra estinzione, senza alcuna transizione…