Era piacevole passeggiare nel bosco umido con quel forte odore di muschio che ti penetrava nelle narici. Il bubbolo di Red scampanava svogliato tra le felci ed ogni tanto lo vedevo baluginare tra l’intricata vegetazione del sottobosco. Con il fucile a tracolla e con la testa piena di mille pensieri seguivo rilassato il suo andirivieni osservando ogni tanto la maestosità di quel bosco di querce che tante emozioni mi aveva regalato nei mie anni trascorsi a duellare con la regina. Ormai conoscevo ogni angolo ed ogni possibile rimessa, ma quel giorno tiravo via parecchio di lungo, del resto eravamo già a dicembre inoltrato, e le beccacce in questo periodo erano davvero rare e smaliziate per regalarmi la possibilità di un incontro. Anche Red sembrava lavorare di routine, senza emozione, senza frenesia. Frustava il terreno con maestria, ma con poca eccitazione, sentiva che anch’io ero poco presente e si limitava ogni tanto ad alzare la testa come per dire:”Se non interessa a te…”. Funghi infradiciati dalla pioggia appassivano marcendo in un’ampia carbonaia dando un tocco di bianco sporco a quelle monotone tonalità di verde, mentre il solo gracchiare di una ghiandaia rompeva un arcano silenzio. Il suono monotono del bubbolo era un qualcosa di artificiale che non interferiva sui silenzi che avvolgevano l’intero bosco, e continuava incessante, poi mi resi conto di non sentirlo più. Di colpo il sangue mi ribollì nello stomaco, di colpo svanirono i miei pensieri, e il silenzio del bosco mi parve un rumore assordante. Erano i miei stivali che strappavano le rogarazze per portarmi velocemente verso il cane. Lo vidi. Accovacciato fin quasi a sfiorare il terreno, il muso proteso verso un piccolo cespuglio di aghifoglie, il corpo lievemente piegato con la coda tesa. Mi avvicinai piano con il fucile in braccio, feci ancora un passo e poi un altro. Arrivai a sfiorare il groppone del setter che sulla mia leggera pressione fece un deciso passo avanti e si ribloccò. Guardavo fisso verso il cespuglio, aspettavo il frullo fragoroso della regina con il cuore che ormai incontrollato mi batteva in gola. Erano momenti interminabili. Ancora una leggera spinta e Red fece un altro scatto. Davanti a me, oltre il cespuglio, una fitta cacchiaia di lecci ed alcuni ornelli che potevano nascondermi l’eventuale schioppettata, mi spostai quindi più a sinistra, ma non avevo ancora poggiato il piede sul terreno che eccola, maestosa comparirmi davanti. Le vidi il lungo becco penzolante, l’occhio enorme che rifletteva stilettate di luce, le zampe retrattili e il petto, gonfio e paffuto che mi si mostrò davanti. D’istinto mi trovai con il fucile già spianato sulla linea di tiro, la incannai brevemente e strinsi forte il grilletto. La guardavo aspettando che si arcuasse sotto la mia stoccata, ma invece non fece una piega, spianò le ali e direzionò verso la cacchiaia. La mia seconda fucilata partì senza una logica, là dove l’avevo vista sparire. Tra un tronco e l’altro mi parve di vederla irrigidire e abbassare la sua traettoria, ma forse l’avevo ancora mancata. Rimasi immobile, i battiti del cuore stavano decelerando, aprii il fucile ed estrassi i due bossoli fumanti. La rabbia mi stava montando per quell’incredibile errore, quando vidi Red che con un ben familiare fagotto in bocca si stava avvicinando verso di me. L’aveva recuperata, credevo di averla di nuovo padellata ed invece chissà come ero riuscito a scalfirne la sua carena facendola precipitare al suolo. Il cane arrivò ai miei piedi ed io potei vederla. La testa ritta e gli occhi grandissimi e supplicanti. Gliela tolsi di bocca, sembrava intatta, era viva e mi guardava. Il suo cuore batteva all’impazzata, mi venne l’istinto di terminare subito le sue sofferenze battendola per terra, ma poi mi fermai. Notai che aveva una piccola macchia di sangue sulla remigante sinistra. Un pallino le aveva troncato di netto l’ala, ma mi sembrò che non avesse altro piombo addosso. Non ebbi il coraggio di finirla. L’avvolsi delicatamente nella sciarpa, me la misi in carniere e riposto il fucile nella custodia mi avviai verso la macchina. Arrivai a casa prima di mezzogiorno, avevo in garage una grossa gabbia nella quale mia figlia aveva tenuto dei conigli d’angora e pensai che potesse andar bene per ricoverarcela. Presi la beccaccia e la esaminai di nuovo, sembrava stesse bene nonostante la ferita. Con uno stecco da spiedino, le immobilizzai l’arto, fissandolo con dei gommini non prima di averlo ben disinfettato, poi misi della terra sul fondo del gabbione e ce la misi dentro. Sembrava più calma, anche se restava immobile accovacciata in un angolo. Le porsi una bacinella con dell’acqua e mi ripromisi nel pomeriggio di procurarmi dei lombrichi per dargli del cibo. “La chiamerò Camilla – sentenziò mia figlia eccitatissima.- La faremo guarire e poi la lasceremo andar via; ma tu non gli sparerai più, vero babbo?” “Certo che no” risposi. La raccolta dei lombrichi fu più difficile del previsto. Dopo vari tentativi riuscii finalmente a trovare un fossato dove già alla prima vangata vennero fuori decine di viscidi anellidi. Li raccolsi con cura dentro una bottiglia di plastica tagliata e giunto da Camilla, ne gettai tre o quattro sul fondo del gabbione. Rimase impassibile, pensai che forse qualche pallino l’avesse raggiunta in altre parti del corpo ed io non gli stessi che provocando un’inutile e terribile agonia, pentendomi amaramente di averla portata a casa e per di più di averla mostrata a mia figlia che ormai la coccolava come un qualsiasi animale domestico. Venne la sera e la beccaccia rimase immobile al suo posto. Al mattino pensavo di trovarla morta, ed invece era ancora lì con gli occhioni nerissimi a fissare nel vuoto. I lombrichi erano strisciati via e non c’erano tracce di movimenti, ne di fori sul terreno provocati dal suo lungo becco. Non mi arresi e decisi di riprovare cambiando comunque strategia: misi dei lombrichi dentro una scatola da scarpe e la riempii con del terriccio, poi provai a metterla dentro il gabbione. Il mattino successivo Camilla si era spostata, era in piedi e con mia grande sorpresa, aveva rovistato all’interno della scatola di cartone. Incuriosito aprii la gabbia e presi la scatola, la svuotai su un tavolo e tra il terriccio neppure l’ombra di un lombrico. Era incredibile, ma lo scolopacide si era nutrita e anche con avidità visto che mi ricordavo di aver messo una decina di vermi nella scatola e non ce n’era più neanche l’ombra. Tornai a far provviste ed ogni sera la razione di lombrichi aumentava con Camilla che diventava sempre più confidente e sempre più ingorda. Arrivai a mettergliene nella scatola fino a 60 e puntualmente trovavo il terriccio rovistato e ripulito dai vermi. “Che strano e buffo animale” dicevano le amichette di mia figlia che ormai venivano a vedere la beccaccia come se fosse una creatura aliena e piovuta chissà da quale pianeta. Anche la maestra venne a visitare Cammilla, e non mancò di far svolgere dei pensierini ai suoi alunni che immancabilmente, finirono con una violenta accusa alla caccia e al sottoscritto per avergli sparato. La cosa andò avanti così per una decina di giorni; la ferita all’ala stava rimarginandosi bene e molto presto Camilla avrebbe riacquistato la libertà. Avevo già in mente il posto dove liberarla, l’avrei rilasciata nel bosco del Palone, una zona di rispetto venatorio bellissima, un misto di latifoglie e conifere con degli scenari nobili e un sottobosco di felci ricco di humus che avrebbe costituito un ambiente per lei perfetto. Ma una mattina, entrando in garage notai subito che la beccaccia era nel gabbione in una posa innaturale. Avvicinandomi mi accorsi che i suoi occhi erano spenti, il becco toccava sul terriccio e all’apice una gocciolina rossa scarlatto fuoriusciva formando una minuscola pozzanghera. Era morta, appoggiata alle inferriate della sua prigione. Ci rimasi malissimo e subito mi angosciai al pensiero di doverlo dire a mia figlia. Ero stato uno sciocco a pensare di poter recludere un animale così libero in una gabbia, e anche se apparentemente ferito in modo leggero, avrei dovuto istintivamente finirlo sul luogo di caccia. Non so per quale motivo era sopraggiunta la morte, probabilmente un’emorragia interna o un infezione; il piombo non perdona anche a distanza di giorni. Ma mentre cercavo una risposta logica, mi convincevo sempre di più che il vero motivo della sua morte era quello di averla strappata alla sua natura selvaggia, all’attesa dell’imbrunire per uscire dal bosco, al suo allegro “sbeciare” nell’acquitrino. Camilla mi aveva illuso, credevo che alla fin fine fosse facile guarire un animale selvatico, non immaginando che al di là delle ferite materiali, non ci sono cure che possono valere la libertà.

 

Giorgio Creatini