Siamo qui, soli, in questa stanza con le pareti di un colore bianco opaco che assorbe la luce, fra mille strane attrezzature e marchingegni. Irrefrenabile sale alla gola un nodo che blocca le parole, i respiri, i sussurri… è allora che i ricordi si accavallano alle emozioni. Chiudo gli occhi…accarezzo le vene della tua mano… la sento appoggiata alla mia spalla, troppo giovane ed esile per il vecchio Franchi a mollone.

"… sei certo che il tordo si sia posato lì …mi raccomando… spara solo se sei sicuro".

"Ma sì, Lallo…l’ho visto bene…è dietro un ramoscello". …"Spara, allora !".

Boom…"l’ho colpito…è caduto!".

"…presto… va a raccoglierlo…di corsa".

 

Fu il primo tordo di un sognatore quattordicenne e fu anche l’inizio dell’insana malattia che ancora mi affligge.

 

Altri ricordi: la mia prima apertura con licenza in tasca.

Con noi Lea, la nostra setter, l’unica sopravvissuta di un’intera cucciolata, il tuo dono per i miei diciotto anni.

La nidiata di fagiani che avevamo inseguito per tutta l’estate.

Le corse affannose sulle incerte ferme di una cucciolona senza esperienze e le mie sonore smitragliate che produssero inevitabilmente padelle clamorose.

Solo i tuoi recuperi su due femmine, ormai certe di averla sfangata, evitarono la clamorosa disfatta.

Le mie imprecazioni contro tutto e tutti, le cartucce, il fucile, persino gli stivali furono la giustificazione della troppa fretta e dell’imperizia.

E te con la calma di sempre a rincuorarmi, a darmi consigli e pacche sul gilet.

 

Un ticchettìo sordo, metallico mi riporta al presente.

Guardo la goccia nella flebo scendere lentamente, sempre con lo stesso ritmo, senza rumore instilla nel tuo sangue la dose quotidiana di cibo, di speranza, di attesa.

Sfioro ancora la tua mano, chiudo gli occhi e la memoria di nuovo ci trasporta altrove.