Avevo in testa questa canzone di Mina che ricollegavo ad una delle mie prime uscite a caccia con il fucile,il famoso cal.28 monocanna Beretta. Finalmente ho potuto collocare temporalmente con esattezza quelle meravigliose sensazioni Autunno 1959! Ascoltavo Mina il sabato sera in televisione a casa mia che sembrava un cinema; almeno 4 file di sedie e noi ragazzi in prima fila seduti per terra. Ascoltavo e pensavo all’indomani,alla levata alle 5 (o prima), al caffellatte al Bar con zio Franco, Raffaele, Feluccio e gli altri. Ero l’unico ragazzino che aveva un fucile e se ne vedevo qualche altro era soltanto un accompagnatore. In particolar modo ricordo una mattina ancora a buio che arrivammo con la macchina davanti ad una masseria poco lontano da Fasano. La costruzione era sopraelevata rispetto all’uliveto e dal cortile dove avevamo fermato la macchina si dominava tutta la piantagione. Lo scarico di fucili e cartucce dalla macchina ed io che scendo tre scalini di pietra e mi dirigo nell’uliveto mentre due ombre mi passano accanto (forse tordi) ma non riesco a spararli. Non ricordo il carniere ma l’atmosfera meravigliosa che mi donava il solo pensiero di andare a caccia collegata con quella meravigliosa canzone di Mina. Il giorno dopo a scuola raccontavo tutto ai miei compagni che però non potevano comprendere ,non potevano capire, non potevano afferrare – non essendo cacciatori l’ineffabile piacere che donava la caccia. Non mi interessavano i giochi che facevano i ragazzi, le figurine, le biglie colorate, i tappi di bottiglie, anche se qualche volta ci giocavo anch’io. Ma l’essere cacciatore mi faceva dominare gli altri, mi metteva alla pari con gli adulti, mi rendeva felice il solo  pensiero, anche le ore che passavo a guardare zio Franco che caricava le cartucce, il profumo della polvere da sparo (JK6), dei bossoli, del piombo. Guardo i giovani di oggi e li compiango perchè pochi o pochissimi hanno avuto il dono del sacro fuoco. Spero solo di poter andare a caccia fino all’ultimo, magari anche con uno sgabello per sedermi quando non riuscirò più a stare in piedi.

Riccardo Turi