Quando ero bambino, e parlo dei primi anni 60, le vacanze non erano certo quelle di oggi, almeno per me. Anche allora si iniziava ad andare nei luoghi di villeggiatura. Io all’età di sei anni conobbi il mare perché i miei genitori mi mandarono in una colonia marina. La cosa comunque mi piacque, mentre i miei compagni frignavano tutto il giorno invocando la mamma, io mi divertivo da matti a giocare con la sabbia e a fare il bagno.

Ma le vacanze che ricordo con più nostalgia sono quelle che passavo in campagna dai miei nonni materni. Non che io abitassi in una grande città, anzi il mio era un paese piccolissimo che mi consentiva di essere quotidianamente in contatto con la campagna, ma le full-immersion che facevo in Giugno, Luglio ed Agosto oppure durante le vacanze Natalizie o quelle Pasquali erano veramente una pacchia.

Mi ricordo la casa dove abitavano i miei nonni, con le camere al piano superiore, mentre al piano terra dopo l’ingresso a destra c’era una porticina sempre chiusa dalla quale si entrava nella stalla e più avanti a sinistra si entrava in cucina, dominata da un enorme focolare, e dopo in quello che si potrebbe definire il soggiorno. Prima della cucina c’era una porticina che dava su una scala che scendeva in cantina.
La stalla era veramente un luogo magico, sempre calda e molto umida a seguito del fiato dei buoi e delle vacche che ci dimoravano stabilmente, mi ricordo che specialmente in inverno mi ci rintanavo e giocavo a freccette piantandole nella porta di legno sempre impregnata di umidità e che ben si faceva trafiggere dai miei dardi.
La famiglia dei miei nonni era composta, oltre che dal nonno e dalla nonna, dal fratello di nonno, da sua moglie e dal loro figlio reso impossibilitato a camminare dalla poliomielite. Infine c’era mio zio che era il fratello di mia madre.

L’estate mi piaceva tantissimo. Camminavo lungo i filai di viti aggrappate ai “chioppi”, che sono piante di supporto alle viti. Cercavo i nidi di qualsiasi tipo di uccello, ma era difficile che li depredassi. Solitamente guardavo cosa c’era dentro, se uova o pulcini, e poi mi appostavo poco lontano in attesa che la madre tornasse al nido per poterla guardare all’opera. Anche quando avevo iniziato ad andare a giro con la carabina ad aria compressa, e sparavo a tutto ciò che si muoveva, in quel caso la facevo tacere.

Spesso stavo dietro a mia nonna che, preparata la colazione a base di panzanella, affettato, pomodori e cipolle la riponeva dentro un ampio paniere insieme ad una bottiglia di acqua e ad un fiasco di vino, ricopriva tutto con un ampio tovagliolo di stoffa a quadri e poi andavamo a portarla agli uomini che erano a lavoro nei campi. Ovviamente a piedi. Anche il pranzo solitamente veniva portato nel campo con lo stesso sistema. Poi ci sedevamo tutti ad un’ombra e consumavamo la colazione o il pasto. Se avevamo fatto pranzo gli uomini si sdraiavano sulla paglia a riposare, mentre mia nonna tornava verso casa con il paniere vuoto e io scorrazzavo per i campi.

Che bello correre nelle stoppie di grano con i sandali ai piedi. Gli stocchi di grano mi graffiavano regolarmente le nocche delle caviglie, che erano perennemente scorticate. Ma io manco li sentivo.

Vicino casa c’era la fonte dove si andava a prendere l’acqua che poi veniva utilizzata per lavarsi e per bere. Per prenderla si usavano dei recipienti di rame chiamati “mezzine”. Come era fresca e buona l’acqua appena attinta dalla fonte.
Spesso mi appostavo nell’orto, che era nelle vicinanze della fonte che fungeva oltre che da risorsa di acqua potabile, da lavatoio per i panni e da irrigazione per l’orto. Mi munivo di un lungo stelo di biada selvatica, toglievo i semi e annodavo la sottile punta a mo di laccio. Poi attendevo con molta pazienza che qualche lucertola si avvicinasse per catturarla. Le prede più ambite era i ramarri. Tutte le prede venivano comunque fatte sgambettare per aria e poi regolarmente rilasciate. Con i ramarri c’era da stare attenti perché davano dei morsi non indifferenti.

Quando la canicola era più violenta mio nonno ed i miei zii tornavano a mangiare a casa e dopo pranzo andavano tutti a fare un riposino. Per far passare le ore più calde ma anche perché per poter lavorare nelle ore più fresche si alzavano veramente molto presto, di solito alle quattro del mattino zio e nonno erano già nella stalla ad accudire le bestie.
Andare a letto dopo pranzo era una cosa che io odiavo (anche perché non mi alzavo all’ora dei nonni), mi sembrava di perdere tempo, così mi aggiravo fuori casa a curiosare in ogni angolo e spesso tendevo delle trappole ai polli. Mi sedevo sulla panca che nonno usava per affilare la falce, facevo un laccio con una corda e lo mettevo per terra con al centro della trappola alcuni chicchi di grano in modo da attirare le galline. Mi ricordo bene però che le galline non erano cosi “polle” e raramente cadevano nel tranello. Che comunque non era mai cruento, anche perché quando ne prendevo qualcuna lo starnazzare che produceva faceva immediatamente arrivare mia nonna, preoccupata per l’azione del falco o della volpe. Quasi sempre me la cavavo con una brontolata non troppo convinta, nonna era già contenta che fossi stato io a provocare lo starnazzìo.
Dicevo della panca che nonno usava per affilare la falce. Per affilare la falce nonno usava un punteruolo di ferro con la testa piatta piantato nel terreno. Ci appoggiava sopra la falce e la batteva sapientemente con il martello in modo da affinare il metallo. Poi la passava con la pietra bagnata e diventava come un rasoio.

Mi ricordo ancora perfettamente quando veniva tagliato il grano con la falciatrice trainata dai buoi, prima che fosse utilizzata la mietilega tirata dal trattore. Il grano tagliato veniva diviso in fasci, chiamati “manne”, da mio zio che sedeva sulla falciatrice e teneva in mano un attrezzo di legno con il quale appunto separava le manne. Dietro alla falciatrice mio nonno con mia nonna e spesso anche mia madre e mia zia legavano le manne con alcuni steli di grano. Quando poi invece prese il sopravvento la mietilega trainata dal trattore questa tagliava il grano, separava le manne e le legava, tutto in automatico. Era un’automazione incredibile per un bambino. Mi ricordo bene che, sia la falciatrice trainata dai buoi che il trattore con la mietilega affrontavano i campi dall’esterno girandogli intorno, alla fine rimaneva solo un piccolo appezzamento al centro e io andavo in fibrillazione aspettando di vedere quali animali sarebbero fuggiti prima che fosse falciato l’ultimo pezzetto. Quasi sempre la lepre e una covata di fagiani era costretta a fuggire allo scoperto e io contentissimo di vederli iniziavo ad urlare perché anche mio zio e i miei nonni vedessero gli animali. A loro in realtà non importava un gran che perché nessuno di loro andava a caccia, ma mi assecondavano volentieri. Le manne di grano venivano poi raggruppate in “mucchie”, o “barche” a seconda del dialetto della zona, venivano posizionate in cerchio con le spighe rivolte verso l’interno e leggermente verso l’alto, in modo che eventuali piogge non rovinassero il prezioso prodotto. Per radunare le manne lavoravano spesso dopo cena e nelle notti di luna piena fino a notte fonda, salvo poi alle quattro del mattino dopo essere nuovamente in piedi. Finito di segare tutto il grano, le manne venivano caricate sui carri fino al limite delle leggi sulla fisica e poi portate a casa dove veniva fatta una grande massa, costruita sempre in modo che la pioggia non rovinasse il raccolto.

L’emozione più grande era quando arrivava la trebbia. Era una macchina che mi affascinava. Quando sapevo che doveva arrivare mi alzavo prestissimo per vederla.
Quell’enorme ammasso rosso di ingranaggi, di pulegge, di vagli mi lasciava letteralmente a bocca aperta. Quando poi iniziava la trebbiatura con la messa in moto del trattore che trasmetteva il movimento alla macchina tramite una puleggia e una lunga cinghia, non riuscivo a staccarmi dalla macchina. Dai poderi vicini arrivavano gli altri contadini ad aiutare e diventava una festa. Ero sempre nel mezzo al polverone che si sollevava dalla macchina in movimento. Portavo da bere a coloro che lavoravano, salendo anche sulla massa delle manne con il fiasco del vino e un unico bicchiere che serviva per tutti. Dalla massa alcuni contadini con il forcone prendevano le manne e le mettevano su un nastro trasportatore che le portava all’interno della trebbia. Da una parte della trebbia usciva la paglia che cadeva in un’altra macchina che la riduceva in presse a forma di parallelebipedo che venivano prese da altri lavoratori e ammassate nel pagliaio. Vicino alla bocca da dove usciva la paglia c’era un’altra bocca da dove usciva la “lolla”, costituita dai piccoli gusci in cui sono racchiusi i chicchi di grano. Io mi divertivo a fare i salti nel monte della lolla, riempiendomi fin dentro le mutande di fastidiosissimi pezzettini che bucavano come aghi, ma era troppo divertente e niente poteva trattenermi.
Dalla parte opposta della trebbia usciva il grano che veniva raccolto in balle e portato a spalla nel granaio.
Mia nonna, mia madre e mia zia non si vedevano mai, erano impegnate in cucina a preparare il pranzo che non poteva certo far fare brutta figura in presenza del vicinato.
Così per quel giorno venivano ammazzati i loci (oche) più belli e mi ricordo ancora lo splendido sapore delle tagliatelle fatte in casa con il sugo di locio e del locio in umido con le erbe di campo. A pranzo ci sedevamo tutti al grande tavolo del soggiorno, utilizzato quasi solo in quella occasione. Tutti erano allegri scherzavano e ridevano dimenticando il caldo e la fatica.
Quando tutto finiva e la trebbia partiva trascinata verso un altro podere inevitabilmente venivo preso dalla tristezza, ma in quanto bimbo mi passava molto velocemente. Mentre mamma mi infilava in una tinozza piena di acqua per lavarmi via tutta la lolla e la polvere che mi era rimasta addosso.

Quando si arrivava a settembre mio zio, che non andava a caccia ma che teneva un tronchetto cal. 16 ad una canna per difesa (mai c’era stata l’occasione di usarlo per tale scopo), per farmi contento si metteva a sparare ai passeri nel cipresso di fronte alla finestra di camera sua. Stavamo fermi a sedere davanti alla finestra e quando un passero si infilava nel cipresso zio sparava, ma considerando che il cipresso è molto fitto e anche il fatto che probabilmente non aveva una grande mira, quando arrivavo sotto il cipresso trovavo quasi sempre solo qualche coccola e un po’ di foglie.
Una volta mi presi una bella paura, erano tutti a lavorare nei campi, così entrai in camera di zio, aprii la finestra e verificato che nel cipresso c’era qualche uccello presi il fucile e lo caricai. Non so come, ma appena lo chiusi partì la fucilata. Per pura fortuna centrai la finestra aperta. Così tutto tremante rimisi tutto a posto e me ne andai a giro per le campagne, con il terrore che qualcuno avesse sentito la fucilata. Quando tornai a casa nessuno mi chiese niente e mi tranquillizzai. Solo dopo qualche anno quando ero ben più grande mio zio, sorprendendomi, mi parlò della cosa. Si era accorto di tutto, ma mi voleva troppo bene e non aveva detto niente.
E’ certo che non toccai più un fucile se non in presenza di babbo o di zio.

Autore del racconto
Vivailpelo
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