Era una mattina di Novembre. Dai corsi d’acqua lungo la strada si levavano fantasmi di nebbia che si perdevano fra i rami scheletrici degli alberi appena visibili nel grigiore imperante. Forse agli occhi di un non-cacciatore sarebbe stata una visione triste, deprimente. Ma non per me, che avevo 16 anni (era il 1964) e che, insieme a Papa’, stavo per arrivare alla riserva della Marcigliana. Girando a sinistra dalla Salaria entrammo nella stradina della fattoria. Ci fermammo davanti al gran casolare che fungeva fra l’altro da ufficio al fattore, amico di Papa’, che ogni tanto ci invitava a cacciare. Il cuore mi sussultava in gola in anticipazione della meravigliosa giornata che gia’ pregustavo. Entrammo nell’ufficio, e Papa’ comincio’ a chiacchierare col fattore. Io fremevo. Basta, Papa’, meno chiacchiere, pensavo, mentre rimanevo sulla soglia guardando verso le piane del Tevere. Finalmente i “grandi” smisero di chiacchierare, il fattore telefono’ a uno dei guardiacaccia della riserva, che arrivo’ in pochi minuti, un uomo alto e largo come un armadio. Salimmo in auto, e ci dirigemmo verso il Tevere, fermandoci a meta’ strada. Lamenti di pavoncelle e trilli di allodole ci diedero il benvenuto. Cominciammo la cacciata camminando lungo i fossetti di irrigazione. Parecchi beccaccini frullarono fuori tiro mentre avanzavamo, ma ogni tanto uno piu’ pigro ci saettava quasi da sotto i piedi, facendoci sobbalzare col rumore delle ali e con il suo “bacio” rauco. Ne abbattemmo otto, piu’ uno storno sfortunato che frullo’ dal lato del fossetto e che si prese la mia stoccata. Mi ricordo un beccaccino che parti’ infido dalla riva opposta del fossetto che stavo seguendo dopo che io ero gia’ passato, zigzagando alle mie spalle. A quell’epoca ero agile, ci vedevo come un falco, ed avevo riflessi fulminei. Mi girai su me stesso e gli rifilai una stoccata che lo fece cabrare per una frazione di secondo in una scia di piume. Ma cadde sal lato opposto del fossetto. Diedi il fucile a Papa’ e ritornai indietro verso un punto dove sapevo che sarei riuscito ad attraversare il rigagnolo d’acqua camminando su un fondo piu’ solido di quanto lo fosse altrove, dove il fango argilloso era un’insidia da tener di conto. Ero appena arrivato al “guado” quando una punta di sette o otto pivieri dorati mi passo’ sulla testa. Fu la prima e l’ultima volta che ebbi a tiro questi bellissimi uccelli–ed ero senza fucile!
Dopo i beccaccini, il guardia ci porto’ in un posto dove le pavoncelle traccheggiavano fra un prato e l’altro. Ce ne erano a migliaia, e siccome non le insidiava mai nessuno nella riserva erano poco smaliziate. In poco tempo ne raccolsi cinque. Papa’, stanco della sgambata ai beccaccini si fece invece un riposino in macchina. Dopo le pavoncelle mi dedicai alle allodole. Avevamo uno specchietto a orologeria, una scatola ovale verde nella quale era stipato lo “specchietto,” che consisteva di tre pale di metallo duttile, scintillante. Si spiegavano le pale, si davano tre o quattro pieghe ad ogni pala per assicurare che lanciasse riflessi da tutte le parti, si infilava l’alberino dello specchietto sull’apposito perno, si caricava la molla, e lo specchietto girava per una ventina di minuti. Ci nascondemmo nel fosso a lato della strada a una cinquantina di metri dall’auto, e rimediammo un bel mazzetto di allodole, che a quei tempi erano credulone e non sapevano resistere a uno specchietto e a un fischio usato abbastanza bene. Era ora di pranzo, e tornammo alla fattoria, dove ci offrirono cibi rozzi ma di una bonta’ incredibile, tutti provenienti dal sudore della fronte dei contadini della fattoria e delle loro mogli. Il pane casareccio, cotto al fuoco di legna era ancora tiepido e croccante. Salami di due o tre tipi e prosciutto tagliato a fette molto piu’ spesse di quelle delicate ed eteree che si comprano in pizzicheria, vino rosso “duro,” Un’insalata di fagioli che ancora ricordo a distanza di tanti anni perche’ non ne ho mai assaggiata un’altra cosi’ buona da allora. Poi, dopo un riposino, il fattore ci volle accompagnare a fare una battuta pomeridiana alla stanziale, dall’altro lato della Salaria, insieme a un paio di altri amici. Uno degli amici, un umbro, sembrava il sosia di John Kennedy, ancora mi ricordo. Le colline della riserva erano piene di fagiani veramente selvatici. Ci dividemmo a una spalletta boscosa, io sotto, gli altri sopra, e il guardia con un paio di cani. Una vecchia fagiana enorme venne giu’ verso di me a gran velocita’, passandomi a pochi metri sopra la testa. Sparai quasi senza imbracciare, e la rosata, facendo palla, le porto’ via la testa. Meno male che non la presi in pieno, o l’avrei disintegrata. Il guardia arrivo’ e la raccolse congratulandosi per quel tiro impossibile. Io gongolavo. Ricaricai, misi la sicura, e avanzai per non rimanere indietro rispetto agli altri cacciatori, che ogni tanto sentivo sparare. Avevo fatto si e no dieci passi, quando un leprone mi schizzo’ da sotto i piedi. Imbracciai e premetti il primo grilletto dell’S55B, ma avevo dimenticato di togliere la sicura. Frastornato, emozionato, la tolsi, ma sebbene la lepre fosse ancora a tiro le feci dietro ambedue le botte, sollevando pezzi di fango argilloso. E il guardia era proprio dietro di me, assistendo all’intera scena. Devo aver avuto una faccia rossa come l’interno di un cocomero maturo per la vergogna.
Poi, triste, dolceamaro, venne il tramonto. Eravamo stanchissimi. La giornata passata a sgambare nel fango argilloso che dopo dieci passi ti trasformava gli stivali in zampe di elefante era stata lunga. Ma il cuore esultava, e al ritorno, carichi di selvaggina di sei specie diverse (beccaccini, allodole, fagiani, due lepri, lo storno sfigato, ed una quaglia novembrina grassa e grossa quasi come una starna, presa da mio padre mentre attravesavamo una piana erbosa) entrammo trionfanti a casa, e mi ricordo che a cena quasi mi cadde la testa nel piatto dal sonno.
La Marcigliana… un paradiso di caccia. Ci presi la prima beccaccia, la prima lepre, e l’unico croccolone che abbia mai visto, un pomeriggio di Marzo, Ci ritornammo tante volte, ed ogni volta ci donava una giornata meravigliosa. Poi le vicende della vita posero fine a quella cornucopia di ricchezze venatorie. Lasciai l’Italia, Papa’ mori’ e quando un giorno tornai in Italia con mia moglie, che non c’era mai stata, facemmo un viaggio verso il nord, e passammo sull’autostrada che adesso tagliava la parte a valle della riserva in due, mutilandola. Poi, qualche anno dopo, scoprii che l’intera riserva era diventata un parco naturale, strappato non solo ai cacciatori piu’ fortunati che potevano accedere alla riserva, ma anche a quelli che cacciavano nella larga striscia di terra libera che costeggiava il Tevere, e che era sempre un’ottimo posto per cacciare allodole, beccaccini e pavoncelle, e anche, se la fortuna sorrideva, qualche anatra che la mattina prestissimo si avventrurava nei campi coltivati di quella fascia di terra fuori dalle paline della riserva. Un posto cosi’ bello a soltanto 18 km dal centro di Roma venatoriamente finito per sempre. Scommetto che nella zona collinosa i fagiani e le lepri ormai sono rari, perche’ senza il controllo dei nocivi praticato dai guardiacaccia della riserva, donnole, volpi, tassi, cornacchie e cinghiali si saranno goduti per qualche anno lauti pasti di uova, nidiacei, e leprotti, nonche’ di capi di selvaggina adulti.
Addio, Marcigliana, ieri paradiso di caccia, oggi soltanto meta di qualche Verde ignorante con binocolino a tracolla che non saprebbe distinguere una pavoncella da una cornacchia e che, vedendo una volpe spelacchiata e rognosa o una donnola con una beccaccia in bocca, si commuoverebbe e crederebbe di aver assistito a una puntata del National Geographic.

 

 

Giovanni Tallino