La pizza napoletana alla prova Nazioni Unite

Alberto 69

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Giovedì 16 Aprile 2015

L'arte dei pizzaioli partenopei è candidata a entrare nella lista del patrimonio mondiale immateriale dell'umanità. Fino ad ora il nostro Paese non è riuscito a tutelare il suo piatto più famoso, ma anche più imitato, al mondo.


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Per un italiano può sembrare incredibile, ma nel mondo sono moltissimi i consumatori convinti che la pizza sia un prodotto tipico degli Stati Uniti, grazie al successo planetario di catene come Dominos o Pizza Hut. La colpa è un po' anche nostra: finora non siamo stati bravi come i francesi, capaci di blindare il nome “champagne” da qualsiasi tentativo di imitazione. Eppure quando veniamo punti nell’orgoglio reagiamo con campagne informative simpatiche e anche molto efficaci. E’ il caso della risposta dei pizzaioli partenopei all’ultimo spot di McDonald’s che screditava uno tra i più famosi prodotti italiani. Finora si sono rivelati invece un fallimento tutti i tentativi concreti di difendere il nostro piatto forte. Solo le Nazioni Unite ci possono salvare.

Infatti tra poco più di un anno l'Unesco potrebbe riconoscere le peculiarità tutte italiane della pizza napoletana.
L'arte dei pizzaioli napoletani è infatti candidata a entrare nella lista del patrimonio culturale immateriale dell'umanità per il ciclo 2015-2016. Accettata la candidatura (che era stata bocciata nel 2011) inizia la parte più difficile: l'Italia dovrà adesso affrontare un negoziato per convincere oltre 150 Paesi di tutto il mondo. Sarà il professor Pier Luigi Petrillo, docente alla Luiss di Roma e membro della Commissione nazionale italiana per l'Unesco, a tessere la tela.

Per l'Italia sarebbe il settimo riconoscimento di questo tipo, il terzo legato all'alimentazione dopo la dieta mediterranea (insieme ad altri sei Paesi) e la coltivazione della “vite ad alberello” tipica di Pantelleria, che è entrata nella lista proprio nel 2014 grazie all'opera di persuasione del professor Petrillo.

Unesco, il primo passo? Diventare patrimonio mondiale dell'umanità avrebbe un forte valore simbolico e darebbe alla pizza napoletana un prestigio innegabile. Ma quali vantaggi, in concreto, potrebbe portare a uno dei piatti più imitati del mondo?

“Nel momento in cui entra nelle liste Unesco, un patrimonio cessa di essere esclusivo di una comunità e diventa patrimonio di tutti: ovvero tutti devono salvaguardarlo, conservarlo, valorizzarlo, promuoverlo” spiega il professor Petrillo, che è anche consigliere giuridico del ministero delle Politiche Agricole (Mipaaf). “Uno dei motivi per cui abbiamo tanto insistito per candidare questa tradizione alimentare italiana è per contrastare quei fenomeni connessi alla globalizzazione che hanno reso la pizza un prodotto commerciale di grande diffusione, facendone perdere la storia, l’identità”.

“Se oggi lei va in America e chiede dove è nata la pizza, qualcuno magari le dirà che è nata a Chicago durante gli anni del proibizionismo – continua Petrillo – ma noi sappiamo che ha un’altra storia ed è bene che tutti conoscano cosa c’è dietro a questo prodotto alimentare, ovvero conoscano la vita dei pizzaioli, la loro cultura, il loro modo di essere. L’Unesco accenderà un riflettore mondiale su questo”.

E se il negoziato andasse a buon fine? Per capire in che modo agirà il nostro Governo per diffondere la “buona novella” bisogna ancora aspettare. “Il Mipaaf è già al lavoro per elaborare delle linee guide per la gestione di un risultato positivo del negoziato”, dice Petrillo.

Insieme all'Associazione pizzaiuoli italiani e UniVerde, Coldiretti aveva lanciato una petizione su Change.org con 40.000 firme raccolte più – a detta dei proponenti – altre 300.000 in giro per l'Italia. Secondo Coldiretti il riconoscimento Unesco aiuterebbe a tutelare un piatto che troppo spesso viene preparato con “mozzarelle cagliate dall'est Europa, pomodoro cinese o americano o addirittura olio di semi al posto dell'extravergine italiano”.

Tutto vero, ma se l'Unesco deciderà di premiare la pizza napoletana, è già possibile immaginare cosa accadrà a partire dal giorno successivo? “Inizierà il vero lavoro di riconoscibilità del prodotto – spiega Stefano Masini, responsabile Ambiente di Coldiretti – cioè far capire al consumatore che la pizza napoletana è solo una, preparata in un certo modo. Bisognerà fare un grosso lavoro di educazione al consumo”.

Secondo l'Associazione pizzaiuoli napoletani (Apn), che riunisce quasi 700 pizzerie in Italia e nel mondo, l'obiettivo finale dev'essere quello di fare della pizza “lo champagne italiano”. “Fuori dalla Francia nessuno al mondo può vendere un vino chiamato 'champagne' a meno che non si sia sottoposto a un preciso e rigido metodo di produzione – spiegano da Apn – e lo stesso vorremmo che accadesse alla pizza, perlomeno quella napoletana. La candidatura Unesco, insieme al marchio 'Specialità tradizionale garantita' vanno proprio in questa direzione”.

Stg: un precedente inquietante. Non è la prima volta che l'Italia tenta di tutelare la pizza napoletana. Il precedente, però, lascia davvero poco spazio all'ottimismo. Nel febbraio del 2010 l'Unione Europea l'ha riconosciuta come Specialità tradizionale garantita, assegnandole il marchio Stg.

Significa che per potersi fregiare di questo riconoscimento, valido in tutta l'Unione, i pizzaioli devono attenersi a rigide regole, racchiuse in un documento chiamato “disciplinare di produzione”: si possono usare solo olio extravergine d'oliva, mozzarella Stg o bufala campana Dop, il diametro della pizza non può superare i 35 centimetri, senza contare altre prescrizioni su impasto, lievitazione e cottura, che può avvenire solo in un forno a legna. Quello del forno a legna non è un particolare da poco perché esclude, di fatto, tutti gli stabilimenti industriali. Insomma, il marchio di qualità ha un raggio d'azione limitato: le pizzerie. Restano fuori tutti i prodotti cotti, surgelati e venduti nei supermarket di tutto il mondo.

L'Stg? Mai sentito. Il principio non è quello di tutelare un prodotto commerciale ma una ricetta, un metodo di produzione ormai più che centenario. Ma non funziona. Perché a differenza dei bollini Dop e Igp, i consumatori non sanno neanche cosa sia il marchio Stg. Il risultato è che chi prepara la pizza napoletana nel pieno rispetto della tradizione – ed espone il marchio di qualità all'ingresso - è sullo stesso piano di tutti gli altri. “L'Stg è una scatola vuota. Pochissime pizzerie hanno richiesto il marchio e il motivo è semplice: a fronte di spese per centinaia di euro per sottoporsi ai controlli, non porta alcun vantaggio” spiega Massimo Di Porzio, vicepresidente di Associazione verace pizza napoletana, una delle due entità (l'altra è Apn) che hanno redatto il disciplinare e proposto all'Unione Europea di riconoscere il marchio Stg.

Un prodotto internazionale... anche troppo. La pizza è diventata un prodotto talmente diffuso e globale da rendere la sua tutela molto più difficile. “Pizza” è un termine universale: in queste cinque lettere c'è una gigantesca ridda di prodotti alimentari simili tra loro a un occhio inesperto, ma del tutto diversi nella scelta degli ingredienti e nella lavorazione.

Ecco perché l'Italia non ha potuto registrare il marchio Pizza Napoletana Stg con la riserva del nome. Il nome completo è infatti “Pizza napoletana Stg” seguito dal sottotitolo “prodotta secondo la tradizione napoletana”. Significa che qualsiasi pizzaiolo e produttore può vendere la pizza, anche surgelata, spacciandola per “napoletana”ignorando il disciplinare di produzione senza rischiare nulla.

“I marchi Dop, Igp e Stg hanno senso solo difendono un prodotto commerciale da imitazioni e contraffazioni. Senza la tutela del nome, senza la possibilità di applicare il marchio Stg anche ai prodotti surgelati, mi chiedo che senso abbia tutto questo” argomenta Dario Dongo, avvocato di diritto alimentare e direttore di Great Italian Food Trade, un portale che promuove il cibo italiano nel mondo. “Far approvare un marchio Stg ha dei costi: abbiamo speso soldi pubblici solo per far mettere il bollino a qualche pizzeria?” continua Dongo. Secondo l'avvocato, il riconoscimento dell'Unesco sarebbe molto più utile “perché sancirebbe davanti al mondo, una volta per tutte, che la pizza è nata in Italia ed è quella preparata secondo l'arte e il mestiere dei nostri pizzaioli”.

Il “sistema” che non c'è. Se nessuno sa che esiste un certificato di qualità della pizza napoletana, la responsabilità è in primis degli stessi pizzaioli incapaci di costituire un consorzio di tutela, che dovrebbe diffondere e “spingere” il marchio, informare i consumatori e dialogare con le istituzioni. Nel caso della pizza, il consorzio avrebbe un grosso potenziale. Ma al momento non c'è: il marchio Stg è lasciato all'iniziativa dei singoli.

Che la “pizza certificata” sia al palo lo confermano anche gli enti di controllo: le società che hanno (anzi, avrebbero) il compito di certificare le pizzerie e controllare periodicamente che la ricetta e il metodo Stg siano rispettati.

Il regolamento Ue che assegnava il marchio ne individuava tre: Certiquality è uscita dal progetto lamentando una “scarsa chiarezza” e l'assenza di un consorzio di tutela, Dnv GL ci fa sapere che nessun ristoratore “ha mai fatto richiesta di certificazione” mentre Ismecert, nel frattempo confluita in Agroqualità Srl non ha risposto alle nostre domande. Ma c'è una quarta società riconosciuta dal ministero delle Politiche Agricole, Assam Marche. Roberto Catorci, dipendente Assam, conferma: “Nessuna richiesta di certificazione, nonostante ormai siano diversi anni che abbiamo avuto l'autorizzazione a certificare pizzaioli. Estendere l'Stg anche alle pizze surgelate potrebbe favorire il marchio, obbligando anche le aziende ad adeguarsi agli standard che prevede. Il resto, è compito dei consorzi di tutela: l'attività di questi enti è decisiva per il successo di un prodotto di qualità”.

Riuscirà l'Unesco dove abbiamo fallito noi italiani?





fonte:temi.repubblica.it
 
non abbiamo fallito proprio niente in italia il problema era che molti esercizi commerciali ed anche a livello industriale (vedi pizza surgelata) non avrebbero più potuto usare farina dalla turchia olio dal nord africa mozzarella di bufala con latte congelato o in polvere dall'europa dell'est e pomodori cinesi...
 
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