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Storia della caccia in cucina


da taccuini storici.it



L’uomo appare nella preistoria intorno a 1.500.000 anni fa e pare che per sopravvivere praticasse già la caccia alimentandosi di carne cruda. Con la scoperta del fuoco intorno al 500.000 a.C. l’uomo preistorico fa grandi progressi riuscendo a cuocere il cibo, rendendolo perciò più digeribile e a volte più buono.
L’uomo del Paleolitico era andato avanti ed aveva sviluppato un tipo di caccia specializzata ai branchi di animali. L’alimentazione per lui inizia ad essere frutto di una serie di gesti e procedimenti “raffinati”, come: cuocere, marinare, essiccare e affumicare. Procedimenti finalizzati a rendere commestibile e conservabile il frutto della caccia, iniziando così a tracciare i primi rudimentali segni del concetto di “cucina”.
La semplice cottura sulla brace di carne o radice, non è ancora “cucina”, ma la cottura ne costituisce già l’operazione principale che si completa insieme alla combinazione degli ingredienti e dei procedimenti di preparazione e conservazione.
Nel Neolitico l’uomo cessa di essere predatore e comincia a tentare di controllare le fonti del cibo attraverso la domesticazione delle specie animali. Le cotture più conosciute erano: arrosto sulla brace; cottura sotto la cenere calda; stufare con il grasso della stessa bestia o lessare le carni.
Un’altra tecnica di cottura della carne, collocabile nella preistoria, è quella che avviene sotto terra, ancora praticata in Sardegna e chiamata cotta a carrardzu. I primi cacciatori preparavano il loro pasto in una buca sotto terra, una specie di forno sotterraneo, mettendo così al riparo la prima preda catturata, per poi continuare a cacciare e ritrovare alla fine il pranzo pronto. Si procedeva, secondo quanto ipotizzato da Max Leopold Wagner, in questo modo:
…. dapprima si scava in terra una fossa; viene pulita, vi si stende un letto di rami e di foglie e vi si pone l’animale intero, al quale è lasciata la pelle. Il tutto si copre con un sottile strato di terra e si appicca sopra un grande fuoco, che viene alimentato per numerose ore. …”
Nel mondo antico vi era la convinzione che dopo aver cacciato la bestia, era necessario consumarne la sua carne e il suo sangue (quest’ultimo considerato il liquido che racchiudeva la vita e l’anima della bestia, trasferendo così agli esseri umani la potenza vitale dell’animale cacciato o sacrificato). Prima che l’animale diventasse pasto per gli uomini, se ne dovevano bruciare le interiora che con il loro fumo avrebbero nutrito gli dei. Allora come oggi e, forse inconsapevolmente, in molti ovili e case di Sardegna, si perpetua lo stesso magico rituale.
Tante sono le ipotesi sulle evoluzioni delle cotture, ma prima di avere una “ricetta”, una prescrizione precisa, si è dovuto attendere la scoperta della scrittura, successiva al III millennio a.C., e soltanto a partire da quell’epoca si possono conoscere i più antichi sistemi di gusti e di metodi per trasformare i cibi grezzi in pietanze da consumare.
E’ la Mesopotania la sede della grande civiltà, costituitasi intorno al 3000 a.C. , e che ha inventato la scrittura, per poter così tramandare ricette e le più antiche tecniche di cottura in tre tavolette risalenti al 1700 a.C., conosciute come le “Yale Culinary Tables”.
In queste tavolette vengono descritte fino a 40 ricette, dove le cotture sono ripetute e complesse con alcuni ingredienti non ancora bene identificati.
In una delle tavolette è riportata una ricetta relativa alla preparazione di un raffinato pasticcio di anatra. In sintesi è così raccontata: Eliminate le interiora dell’anatra e pulite sia interiora che carne si cuociono dentro una casseruola: Si lava poi la carne e interiora e si rimette a cuocere con acqua, latte, grasso e odori. Quando riprende il bollore si aggiunge cipolla e pane, nonché una serie di odori.
Altra ricetta è la minestra di piccione messo a cuocere in acqua, grasso, pane, cipolla, porro, aglio ed erbe aromatiche preventivamente tenute a bagno nel latte.
Nella Grecia antica si pratica la caccia di: lepri, cinghiali, cervi, camosci, anatre, galli cedroni, fagiani, pavoni, pernici, beccacce, quaglie, uccelli e nei banchetti le preparazioni sono preparate in modo semplice e solo successivamente si ha la diffusione della raffinatezza
Il filosofo Platone (V sec.a.C.), infatti, preoccupato della golosità dei Greci e della loro raffinata gastronomia, accenna ad una “dieta ideale” fatta a base di olive, cipolle, formaggio, verdure, ceci, fave e ghiande;
Archestrato da Gela (del IV sec.a.C.) in un poemetto, scrive sulla preparazione della lepre specificando che il modo migliore per prepararla era: arrostirla appena superficialmente, togliendola dallo spiedo ancora molto “al sangue” e mangiarla subito "senza far smorfie e senza timore del sangue che gocciola. Ogni altro modo di cucinare la lepre è, a parer mio, completamente assurdo, sia che la si asperga di sostanze vischiose, che la si copra di formaggio o vi si versi sopra troppo olio".
I Romani soltanto con la sottomissione della Grecia, nel II secolo a.C., conobbero i piaceri della caccia come sport.
Ogni battuta di caccia cominciava con un sacrificio alla dea Diana, dea della natura, regina dei boschi e protettrice degli animali. Il cacciatore romano invocava la sua assistenza promettendole parte delle prede cacciate.
Nella loro cucina mascheravano i cibi e secondo il motto del cuoco della Roma imperiale Apicio: “Nessun capirà mai cosa c’è in questo piatto”
Il cinghiale lo arrostivano dopo averlo sottoposto a lessatura; oppure lo cucinavano in umido o lo marinavano con sale e cumino e poi lo condivano con una salsa composta di miele, garum, vino cotto e passito.
Tutta la selvaggina dopo la cottura in forno si condiva con una salsa fatta con pepe ligustico, origano, bacche di mirto, coriandolo, cipolle, miele, garum , vino e legata con amido
Le carni, per la sua durezza e per la conservazione sotto sale, venivano cotte almeno due volte: la prima era la bollitura e successivamente veniva solitamente arrostita.
Apicio ci lascia, fra le numerose ricette, quella per la cottura della carne che in genere veniva bollita più volte:…quando l’acqua avrà bollito per tre volte si levi la bestia e gli si dia un altro bollore nella salsa indicata…”. Altre volte dopo la bollitura si passava sulla griglia. In alcune ricette si bolliva (per il cinghiale) in acqua di mare
Umido di lepre: Prima si cuoce in un po’ d’acqua, poi si sistema in una pentola e la si cuoce in forno con un po’ d’olio. Quando la cottura è quasi completata, si cambia l’olio. Spalma la lepre con il seguente guazzetto: trita pepe, santoreggia, cipolla, ruta, semi di sedano, garum, laser, vino e un po’ d’olio. La lepre si gira a più riprese e termina la sua cottura in questo guazzetto.
Per la pernice e tortora lessi Apicio consigliava: Pepe , ligustico, semi di sedano, menta, bacche di mirto o uva passa, miele, vino, aceto, garum e olio. Utilizzare come salsa fredda.
Anche nell’Alto Medioevo la caccia era, per la popolazione, uno dei principali mezzi di approvvigionamento del cibo. Per i nobili costituiva invece un vero e proprio ed esclusivo divertimento.
Le pietanze, solitamente venivano bollite o arrostite e molto spesso le carni subivano i due procedimenti prima del consumo.
Nella cucina del Medioevo prevalevano le doppie cotture delle carni e successivamente venivano condite con abbondanti spezie.
In un ricettario di un anonimo meridionale del Trecento, il colombo veniva prima arrostito e poi condito con una salsa stemperata con un pesto di fegato della stessa bestia, pane, aceto e vino.
Maestro Martino da Como, cuoco del 1450, lessa la selvaggina in un miscuglio di acqua e aceto; poi la rosola in olio e la condisce con una salsa di mandorle e uva passa. Successivamente tosta il pane e lo ammolla nel vino, brodo di lessatura; passa la salsa al settaccio e infine la cuoce prima di condire la carne. O anche, per la lepre, dopo averla fatta a pezzi la fa lessare, poi la frigge nel grasso. Infine la condisce con una salsa fatta col fegato della lepre arrostito e pestato con mosto, cannella, chiodi di garofano,zenzero zafferano e agresto
Bartolomeo Sacchi detto il Platina, cuoco umanista, lascia una ricetta sul brodo ristretto di selvaggina, concentrato dopo una cottura prolungata della carne con le spezie.
Nel Rinascimento la caccia è sempre il divertimento privilegiato dei nobili. La selvaggina viene lessata o in prevalenza arrostita. In questo periodo si sviluppa il gusto per la presentazione dei piatti. Compaiono le minestre preparate con brodo o latte, riso e cereali, mentre le carni più pregiate della selvaggina, con le sue frattaglie e interiora, la si presentava avvolta in crosta di pane.
Il cuoco Domenico Romoli, detto il Panunto, nel 1560, lascia, tra l’altro, una ricetta di storni e fagianette cotte arrosto, poi lessate e condite con una salsa di spezie. Tramanda anche una ricetta di beccacce arrostite, pane condito col grasso che gocciola durante la cottura della bestia, e servito con due fette di limone.
Il Seicento fu il secolo di transizione dalla grande cucina italiana alla grande cucina francese. Si apre l’epoca dei cuochi e degli architetti di banchetti. Le pietanze si presentano più “naturali e semplici”, perché si riducono le spezie a vantaggio delle erbe aromatiche. La carne viene cotta per lungo tempo, fino a sfaldarsi. I condimenti sono burro e zucchero.
Bartolomeo Stefani, cuoco barocco, lascia tra l’altro una ricetta sulla cottura dell’anatra: la arrostisce con erbe aromatiche e lardo battuto. Lascia anche una ricetta di una pernice che viene cotta come l’anatra e poi la accompagnata con anolini.
Nella stessa epoca il cuoco Antonio Latini, prepara il cervo dopo averlo riempito di rosmarino, aglio, il suo fegato prima arrostito e poi fatto a bocconcini con lardo, prosciutto e spezie, poi cotto al forno. Si può anche preparare uno stufato in un brodo con l’aggiunta di frutti secchi e spezie.
Nel Settecento si ha la cucina secondo i gusti della Vista e dell’Olfatto. I profumi forti vengono respinti e banditi i sentori acri e maschili come quelli del formaggio, cipolla e aglio preferiti invece, sono gli aromi delicati del cioccolato e delle essenze.
Un anonimo piemontese del 1766 lascia diverse ricette che traggono origine dalla cucina francese del periodo. I piccioni li prepara in un intingolo a base di brodo ed erbe aromatiche e quando il brodo si è ristretto, raffredda la carne. Nel brodo aggiunge altra carne, uovo e pane grattugiato e serve la carne col brodo chiarificato. Cita anche ricette come la lepre alla cittadina, filetti di coniglio in insalata, lepre con rape e altre ancora.
In Francia è un secolo dove si consolida una grande gastronomia destinata a fare della cucina francese la più diffusa nel mondo. Vengono realizzate le prime preparazioni con salse e aromi raffinati che diventeranno poi fondamento della cucina internazionale.
La cucina italiana ufficiale per tutto l’Ottocento è succube dei canoni della cucina francese, con preparazioni lunghe e di salse complesse-
In Italia ad emergere è Pellegrino Artusi che deve la sua fama al libro "La scienza in cucina e l'arte del mangiar bene (1891)", raccolta di ricette della cucina tradizionale italiana, senza abbandonare le indicazioni dell’alta cucina francese. Sulla cacciagione riporta ricette del tipo: pappardelle colla lepre, piccioni all’inglese, storni in stufa, tordi disossati, molto vicine alle ricette regionali odierne.
Col Novecento la società italiana si è trasformata profondamente e nel periodo si hanno due importanti pubblicazioni del 1905 e 1909 contenenti indicazioni su una nuova cucina delle specialità regionali.
La cucina contemporanea, nata dopo la guerra e senza materia prima perché si fondava con cibo razionato e poco disponibile, non consentiva grandi evoluzioni. Con la ripresa economica degli anni Cinquanta si ha una cucina più rielaborata, e facilitata nella preparazione con l’avvento degli elettrodomestici. Negli anni Ottanta il cuoco Gualtiero Marchesi lancia la Nouvelle cousine, che era nata in Francia negli anni Sessanta, e si fondava sulla semplificazione delle preparazioni e degli ingredienti.



 
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