Il dilemma dell’onnivoro: cibo selvatico, caccia e sostenibilità

lando

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Interessante articolo controcorrente da LA CUCINA ITALIANA on-line


link: https://www.lacucinaitaliana.it/article/cibo-selvatico-caccia-sostenibilita/


Riflessioni e domande sugli animali che mettiamo nel piatto per scoprire i nostri pregiudizi e diventare più consapevoli. E decidere di mangiare selvaggina italiana o tofu


di Margo Schachter 6 giugno 2022

L’uomo nasce cacciatore-raccoglitore, più raccoglitore in realtà che cacciatore. Prima del Neolitico, quindi di agricoltura e allevamento, la Paleo diet era prevalentemente un insieme di chiocciole, insetti e piccoli roditori più che di mammut come nei film. Fatto sta che siamo stati predatori, e nell’evoluzione della specie lo siamo diventati sempre di più fino ad arrivare in cima alla catena alimentare. Due ere geologiche dopo però non abbiamo più bisogno di cacciare per mangiare, e a dire il vero non abbiamo più bisogno di mangiare buona parte di tutto quello che consumiamo. Però facciamo entrambe le cose e quindi, vegetariani e vegani a parte, il 91,8% della popolazione italiana onnivora (secondo il Rapporto Italia 2021 dell’Eurispes) dovrebbe quindi interrogarsi sulla provenienza del cibo di originale animale che porta in tavola o che ordina al ristorante.

Cibo selvatico = cibo cacciato
Selvatico ha un’accezione positiva: naturale, libero, spontaneo, genuino, nutrizionalmente e gustativamente più buono. Erbe e frutta a parte, il cibo selvatico però va cacciato, ossia cercato, catturato e poi ucciso. Suona barbaro se si parla di fagiani, cervi, anatre e fucili; ma in pochi considerano caccia quella di acciughe e merluzzi, anche se navi grandi come portaerei setacciano il mare in cerca di prede. Anzi, un branzino preso all’amo o il salmone selvaggio dell’Alaska sono delle delicatessen che consideriamo molto meglio di quelli allevati e di cui cantiamo le lodi a tavola. Sulla carne applichiamo però un metro di valori differente, c’è un evidente bias cognitivo che rende la caccia un argomento divisivo, istintivamente repellente, ma con cui dobbiamo confrontarci culturalmente in quanto onnivori per esserlo in modo più consapevole.
Possiamo realmente considerare moralmente accettabile mangiare cibo allevato solo perché deleghiamo a mattatoi o pescherecci il lavoro sporco, lontano dagli occhi lontano dal cuore? O forse dovremmo guardare quella fetta di carne o quella scatoletta di tonno in modo diverso?


Caccia fra tradizione e innovazione
La caccia è una tradizione, è cultura, sostengono i cacciatori ed è vero, ma loro stessi sono la dimostrazione che le tradizioni cambiano ed evolvono: in Italia il numero dei cacciatori è in progressiva diminuzione: erano il 3% della popolazione italiana nel 1980 e oggi sono poco più dell’1%, prevalentemente anziani. Si stanno letteralmente estinguendo, e probabilmente il dibattito caccia sì/caccia no si spegnerà di conseguenza in breve tempo. Nel seppur scarso ricambio generazionale si sente però il segno dei tempi e la volontà di trovare strade diverse dalla sostanziale difesa di un presunto diritto alla caccia ricreativa. Al Caccia Village, manifestazione oramai decennale che si svolge in Umbria, regione densa di cacciatori, nelle sale congresso a fianco alle riunioni delle associazioni di categoria che difendono lo status quo, a stand di armi e attrezzature sportive, si snodano dibattiti che parlano di caccia sostenibile, di tutela ambientale, di gestione del patrimonio faunistico, di diritti, ma anche di doveri. Si discute anche di cucina ovviamente, scelta come canale di comunicazione per entrare in contatto con il “mondo non venatorio”, come qui lo definiscono per differenza, ossia il 99% di italiani non cacciatori.


Manifesto del Cibo Selvaggio
Nella sezione dedicata al Cibo Selvaggio si è intrapresa una discussione per redigere un primo manifesto cha ha coinvolto istituzioni, fondazioni, nutrizionisti, aziende e chef (e la sottoscritta a moderare), in un dibattito non facile che guardi al futuro e a una evoluzione del sistema della caccia. «Abbiamo voluto portare attenzione a come una filiera certificata della selvaggina cacciata possa dare valore a un territorio», mi dice Chiara Comparozzi, curatrice con Andrea Castellani dell’area tematica Cibo Selvaggio. L’idea degli organizzatori infatti è far emergere la caccia dal cono d’ombra dei sempre meno appassionati che la praticano per autoconsumo, verso un modello differente intrecciato alla gestione ambientale e correlato alla caccia di selezione (quindi normata dai censimenti e pianificata con le istituzioni per mantenere in equilibrio le specie sul territorio). Significa educare e professionalizzare i cacciatori, farli lavorare a stretto contatto con le istituzioni forestali, avere macelli e veterinari in grado di controllare e trattare la carne e creare così una filiera per commercializzare in modo ufficiale e sicuro la carne di questi animali. La ristorazione e gli chef sono quindi il modo per valorizzarla nelle sue qualità gastronomiche, rendendola a tutti gli effetti una delicatessen al pari dei salmoni dell’Alaska e o del merluzzo norvegese.


Da dove viene la selvaggina che mangiamo
Mentre al telegiornale si vedono le periferie romane invase di cinghiali, in Italia la carne di cinghiale proviene perlopiù da esemplari di allevamento o selvatici, ma uccisi all’estero, principalmente in Ungheria, Balcani ed Europa Centrale. La carne di capriolo proviene per la maggior parte da animali cacciati in Germania; quella di cervo è importata dalla Nuova Zelanda e così via: di locale in realtà quindi c’è ancora troppo poco. Ecco perché uno dei promotori del manifesto è la Fondazione UNA – Uomo, Natura, Ambiente – che sulla filiera della selvaggina lavora già da tempo attraverso “Selvatici e Buoni”. La Fondazione conta fra i soci fondatori proprio le associazioni di cacciatori, l’Università di Pesaro e Urbino e ha collaborato con Slow Food per il primo progetto nato nella bergamasca che, attraverso la formazione dei cacciatori, dei trasformatori e dei ristoratori ha creato un percorso di filiera controllata dal bosco ai banchi frigo della Metro e dei distributori. Ma non è la sola ad aver intrapreso questo percorso perché esistono da anni progetti simili in Emilia Romagna, Piemonte e Alto Adige. Per portare la selvaggina italiana cacciata e certificata a fianco di manzo, pollo, maiale e della carne che consumiamo abitualmente.


Meno, ma meglio
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la nostra razione settimanale di carne ideale sarebbe di 500 g, per il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), solo di 400 g. Secondo delle stime fatte dalla FAO e dall’Ismea, l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, il consumo di carne annuo in Italia ammonterebbe però a circa 90 kg pro capite, al netto di ossa, scarti e parti non utilizzate per alimentazione umana, l’Università di Bologna ne stima in realtà solo 38 kg “puliti ed effettivi” all’anno a persona. Fatto sta che seppur ne mangiamo meno di quello che sembra, e molto meno degli americani o di altri europei, ne mangiamo comunque troppa (più di 700 g, anche nelle stime più conservative).
Se ci aggiungiamo che per fare arrivare sulle tavole quello che mangiamo, secondo le prime stime dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), lo spreco complessivo nel sistema alimentare (spreco alimentare sistemico) ammonta al 63% dell’energia alimentare prodotta complessivamente, quindi sostanzialmente il sistema in cui viviamo consuma troppo, produce troppo e spreca troppo, dalla carne all’ortofrutta con conseguenti ed evidenti problemi di carattere ambientale oltre che economico.


Meglio il tofu?
Se si parla però di animali da mangiare, la riduzione dei consumi dovrebbe includere oltre al tema della sostenibilità e della salute umana, anche onestamente grandi dilemmi etici. Nutrirsi in modo moderato e nel rispetto del benessere animale è una cosa, ma sovraprodurre in modo intensivo e industriale o consumare non per necessità, bensì solo per gola o abitudine, non può essere considerato un sacrificio “utile”. E questo dovrebbe essere un metro di giudizio etico da applicare alla nostra dieta quotidiana e ai nostri comportamenti. Salamino di cinghiale, fagiano arrosto, spezzatino di cervo, lepre in salmì, capriolo con la polenta o, banalmente, una fetta di manzo o una coscia di pollo sono tutti piatti che in molti mangiamo, senza farci troppe domande. Forse dovremmo invece chiederci se questi animali hanno vissuto bene o male, se sono stati uccisi rispettosamente per essere mangiati e non sprecati, se sono il prodotto di un processo industriale o meno. Se quello che abbiamo nel piatto vale la pena davvero di essere prodotto e mangiato, o se dovremmo preferire altro. Magari del tofu.
 
E sia : tofu tutta la vita 😁! Scherzi a parte.....la "filiera della selvaggina" è (dovrebbe/potrebbe) , secondo me, ma anche secondo i relatori dell'articolo, la via da percorrere per un accezione "moderna" dell'attività venatoria ai giorni nostri 😉👍!

Ma riusciranno i "nostri eroi" a portare avanti un così anacronistico progetto in una società, specie quella giovanile,ormai totalmente assuefatta al cibo spazzatura e lontana anni luce dalle tradizioni legate alla terra 😳!?! Magari riusciranno.....chissà 🙄!?!

Io nel mio piccolo centellino gli ultimi colombacci della scorsa stagione per onorarli in tavola in ottimi filetti di petto ripieni e favolosi ragù bianchi 😋.....e posso garantire sulla bonta' della mia corta....cortissima..."filiera del selvatico "......ma farlo capire ai mangiatori di tofu o peggio, mc donald.....sinceramente.....frega più poco 😁.

Un saluto
 
Tofu'???? T'o futti! A me fa uno schifo immane. Ma, allegria! Adesso c'e' la carne sintetica, non proveniente da animali, ma "allevata" in laboratorio, figlia di enzimi, prodotti chimicu, DNA de bacarozzi, e chi piu' ce n'ha piu' ne metta!
 
Ho quasi finito tutto quel poco che ho preso nella passata stagione, mi restano 2 colombacci ed una 40ina di roscioli ancora da pelare chiusi nelle bustine ermetiche dell'Ikea, questi me li centellino anche io, me li sono lasciati per ultimo apposta, ho appurato che sono meglio dei bottacci, sono piu delicati, 5 per volta, me li faccio tutti alle olive.😉😜
 
Io ho ancora due tacchini selvatici surgelati, e cinque scoiattoli grigi. Le tortore le ho finite la settimana scorsa quando c'erano mia figlia ed il marito con la loro bambina settenne. Me ne erano rimaste diciotto, e ce ne siamo mangiate quindici a pranzo e le tre avanzate ce le siamo mangiate io e mia moglie dopo la loro partenza, per consolarci...

Ho un paio di cervi nei surgelatori, pero', completamente disossati e ridotti a bistecche, spezzatino, macinato.

Adesso togliero' gli scoiattoli (gia' spellati, puliti, e tagliati a pezzi) dal surgelatore e li cucinero' stasera. Non ne ho mai mangiati, ma mi dicono che sono squisiti. Volevo farli provare a mia figlia, ma lei non ne voleva sapere, e non li ho neanche scongelati.

Potrei cecchinare qualche tortora dal collare orientale dalla fiestra, con l'a.c. (legalissimo--specie alloctona e considerata invasiva e nociva a quelle nostrane, delle quali sono grosse il doppio e piu' aggressive) ma aspettero' fino alla fine dell'ultima covata estiva e sparero' solo ai giovani dell'anno, per non far fuori i riproduttori adulti. Mi piace avere un po' di petti di tortorelle quasi tutto l'anno, anche prima della stagione a quelle nostrane. Quelle giovani, credo, si riconoscono oltre che dalla mole minore dalla mancanza del collarino scuro.

La selvaggina e' parte integrale della nostra dieta. Proprio stamattina ho mangiato salsiccia sfusa di fegato di cervo, in padella., fatta con fegato tritato insieme al bacon e con le solite spezie.
 
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