Sentenza. Tabellazione e divieto di caccia

Alberto 69

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Cass. Sez. III n. 10926 del 13 Marzo 2019 (Up 23 nov 2018)
Pres. Sarno Est. Zunica Ric. Del Fiore

Con la tabellazione, il divieto si presume noto e l’accusa non ne deve dimostrare la conoscenza da parte del trasgressore, mentre, senza la tabellazione, deve essere invece l’accusa a dimostrare che, nonostante tale mancanza, il trasgressore fosse a conoscenza del divieto (e ciò sulla base di elementi di fatto quali, esemplificativamente, la conoscenza della zona dovuta al dimorare nella medesima o in luoghi prossimi ad essa, l’abituale esercizio della caccia in quei siti, la preesistenza di cartelli successivamente rimossi o danneggiati, magari proprio per eludere il divieto normativo e, in genere, le peculiari modalità dell’azione), non essendovi alcuna ragione per esentare dalla sanzione colui che è a conoscenza del divieto, pur mancando la tabellazione.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del Tribunale di Brindisi del 1° febbraio 2016, A. D. F. e F. P. venivano condannati alla pena di mesi 4 di reclusione ed euro 464,81 di multa ciascuno, in quanto ritenuti colpevoli dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli art. 110 cod. pen. e 21 comma 1 lett. B), 13 comma 1, 18 e 30 comma 1 lettere d) e b) della legge n. 157/1992, per avere, in concorso tra loro, esercitato l’attività venatoria all’interno del Parco Naturale Regionale denominato “Saline di Punta di Contessa” di Brindisi, mediante l’utilizzo di un fucile da caccia a più di tre colpi, con il quale venivano abbattuti quattro esemplari di fauna, di cui un “chiurlo maggiore”, appartenente a specie protetta, fatti accertati in Brindisi il 30 novembre 2013.
Con sentenza del 19 gennaio 2018, la Corte di appello di Lecce, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rideterminava la pena inflitta a ciascun imputato in mesi 4 di arresto ed € 464,81 di ammenda, confermando nel resto.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello pugliese,
A. D. F. e F. P. , tramite il loro comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
Con il primo, sono state dedotte l’erronea applicazione degli art. 10 e 21 della legge n. 157 del 1992 in relazione all’art. 1 comma 3 della legge della Regione Puglia n. 28 del 2002, nonché la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e la violazione dei criteri di valutazione della prova, rilevandosi che nella zona dove si trovavano i ricorrenti al momento del fatto non era stata apposta la prescritta tabellazione, così come imposto dalla legge della Regione Puglia n. 28 del 2002, istitutiva del Parco Naturale Regionale denominato “Saline di Punta di Contessa”, per cui non operava il divieto di caccia, mentre il cartello indicato dalla P.G., che peraltro era stato fotografato obliquamente a una distanza di 15 metri circa, riportava solo la scritta “Strada Provinciale S.P. 88”.
Il secondo motivo riguarda la sola posizione di D. F., evidenziando la difesa al riguardo che l’attribuzione al ricorrente della condotta illecita è stata fondata su una serie di elementi indiziari del tutto privi di univocità e coerenza, non avendo la Corte territoriale considerato che, come già rilevato dal Tribunale, il fucile, la giubba e le munizioni rinvenute erano nella sola disponibilità di Pati.
Con il terzo motivo, la difesa contesta la violazione della regola di giudizio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, desumile dal fatto che la condanna degli imputati era intervenuta nonostante fossero emerse molte incertezze su vari aspetti essenziali della vicenda, tra cui la delimitazione del perimetro dell’area, imposta dalla legislazione regionale, e l’attribuzione della condotta a D. f.
Con il quarto motivo, infine, viene censurato il trattamento sanzionatorio, dolendosi la difesa del diniego delle attenuanti generiche, essendo stata inflitta immotivatamente una pena detentiva ben superiore al minimo edittale, mentre la personalità degli imputati (D. F. è incensurato mentre P. annovera due precedenti aspecifici e risalenti) e la lunga durata del processo avrebbero dovuto orientare la determinazione della pena in misura più favorevole ai ricorrenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Le doglianze proposte nell’interesse di D. F.sono fondate, per cui, nei confronti di quest’ultimo, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Lecce per un nuovo esame.
Il ricorso di P. è invece inammissibile, perché manifestamente infondato.
1. Iniziando la disamina dal primo motivo di ricorso, che concerne entrambi gli imputati, occorre evidenziare che il giudizio sulla configurabilità dei due reati contestati non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Ed invero, quanto alla problematica della conoscibilità dell’area interessata dal divieto di caccia, occorre richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 17102 dell’08/03/2016, Rv. 266638, Sez. 3, n. 39112 del 29/05/2013, Rv. 257525 e Sez. 3, n. 5617 del 15/12/2016, dep. 2017, quest’ultima non massimata, ma relativa proprio a un episodio di esercizio illecito della caccia verificatosi all’interno del Parco naturale regionale “Saline Punta della Contessa” di Brindisi), secondo cui la tabellazione, ancorché imposta per le oasi regionali dalla legge statale n. 157 del 1992, art. 10, comma 9, non rappresenta un elemento costitutivo del reato di esercizio illecito della caccia nelle stesse, in assenza del quale esso per le aree protette regionali non sarebbe configurabile, ma serve soltanto a rendere opponibile ai terzi il divieto, avendo il legislatore ritenuto insufficiente la pubblicazione sul bollettino regionale. Pertanto, in presenza di una tabellazione regolare, la conoscenza del divieto si presume e il trasgressore, salvo casi eccezionali, non ne può invocare a propria discolpa l’ignoranza. La stessa mancanza di tabellazione o la sua inadeguatezza, peraltro, non determinano automaticamente l’esclusione del reato o la non punibilità del reo, ma pongono a carico dell’accusa l’onere di dimostrare che, nonostante ciò, il trasgressore aveva la consapevolezza del divieto.
In definitiva, con la tabellazione, il divieto si presume noto e l’accusa non ne deve dimostrare la conoscenza da parte del trasgressore, mentre, senza la tabellazione, deve essere invece l’accusa a dimostrare che, nonostante tale mancanza, il trasgressore fosse a conoscenza del divieto (e ciò sulla base di elementi di fatto quali, esemplificativamente, la conoscenza della zona dovuta al dimorare nella medesima o in luoghi prossimi ad essa, l’abituale esercizio della caccia in quei siti, la preesistenza di cartelli successivamente rimossi o danneggiati, magari proprio per eludere il divieto normativo e, in genere, le peculiari modalità dell’azione), non essendovi alcuna ragione per esentare dalla sanzione colui che è a conoscenza del divieto, pur mancando la tabellazione.
2. Tanto premesso, deve evidenziarsi che le due conformi sentenze di merito, con argomentazioni non illogiche, hanno rilevato che l’area dove sono stati sorpresi gli imputati era in realtà delimitata da idonea tabellazione.
È stata richiamata in tal senso la fotografia n. 3 inserita nell’album fotografico predisposto dal Corpo di Polizia Provinciale, in cui è effigiato un palo con sopra una tabella non leggibile, ma identica a quelle usate per la perimetrazione dei parchi interessati dal divieto di caccia e del tutto diversa da quella contenenti indicazioni stradali, avendo i giudici di merito altresì precisato che nessuna delle fotografie prodotte dalla difesa, effettuate peraltro in epoca successiva al giorno dei fatti, riproduce esattamente e con la medesima angolazione il tratto di strada effigiato nel citato rilievo n. 3, che documenta, anche attraverso la didascalia a firma dell’agente repertante Mar. Buonomo, la presenza della tabellazione nel varco di accesso più vicino al luogo dove i ricorrenti sono stati sorpresi, non essendovi peraltro altre diramazioni per accedere nel Parco in quella zona.
Alla stregua di tale accertamento di fatto, che in questa sede non può essere di nuovo messo in discussione, non essendovi i presupposti per affermare che vi sia stato alcun travisamento della prova, peraltro neanche formalmente dedotto, deve quindi rimarcarsi la manifesta infondatezza della doglianza difensiva, riproposta in termini più generici anche nel terzo motivo di ricorso, posto che i giudici di merito hanno accertato l’adeguata perimetrazione dell’area in questione, superando così ogni obiezione circa la conoscibilità del divieto di caccia, all’esito di una disamina rigorosa e razionale delle fonti dimostrative raccolte, anche di quelle provenienti dalla difesa, per cui, a fronte di tale verifica fattuale, deve ritenersi non pertinente ogni ulteriore considerazione (formulata invero non solo nel ricorso, ma anche nelle sentenze di merito) in ordine al regime giuridico applicabile al Parco regionale “Saline Punta della Contessa”, o all’individuazione di preventivi oneri informativi a carico degli imputati.
3. Concludendo l’esame della posizione di Pati, rispetto al quale non è contestata l’ascrivibilità della condotta dal punto di vista soggettivo, avendo egli rivendicato il possesso di fucile, giubba e munizioni, deve osservarsi che, anche nella parte relativa al trattamento sanzionatorio, la sentenza impugnata resiste alle censure difensive, atteso che la determinazione della pena finale (mesi 4 di arresto ed € 464,81 di ammenda) non appare ispirata da criteri di particolare rigore, tenuto anche conto del riconoscimento della continuazione esterna, il cui aumento è stato contenuto nella misura di mesi 2 ed € 103,29, partendo di una pena base fissata in mesi 4 di arresto ed € 464,81 di ammenda.
Né comunque risultano adeguatamente illustrate le specifiche ragioni per cui, a fronte dei due precedenti penali a carico di P., relativi a reati fiscali, il trattamento sanzionatorio avrebbe dovuto essere più mite, non potendosi ritenersi idonea, nell’ottica della commisurazione della pena, la considerazione circa la dedotta irragionevole durata del processo, aspetto questo che, ove eventualmente sussistente, è suscettibile di essere fatto valere in altra sede.
Di qui la manifesta infondatezza della doglianza difensiva, dovendosi concludere che il ricorso di P. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
4. Sono invece fondate le censure proposte nell’interesse di Del Fiore e sviluppate nel secondo e (in parte) nel terzo motivo di ricorso.
E invero l’attribuzione delle condotte illecite all’odierno imputato risulta formulata nelle due sentenze di merito in termini apodittici, avendo sia il Tribunale che la Corte di appello rimarcato innanzitutto che solo il coimputato P. si è dichiarato proprietario del fucile e ha personalmente abbattuto le prede abbattute, tra cui il chiurlo maggiore, risultando altresì nella sua disponibilità gli altri strumenti tradizionalmente usati per la caccia; ciononostante, i fatti sono stati addebitati anche a D. F., in base alla considerazione secondo cui l’impiego degli strumenti rinvenuti, come gli stampi di plastica riproducenti i richiami dei volati, “richiede necessariamente la compresenza di più persone contestualmente impegnate nell’attività venatoria” (così la sentenza impugnata).
Orbene, tale considerazione, per quanto non del tutto irragionevole, non può tuttavia ritenersi dirimente ai fini dell’affermazione della penale responsabilità anche del ricorrente, in quanto fondata su una mera asserzione rimasta priva di un effettivo riscontro probatorio circa l’utilizzo in concreto di tali strumenti, non potendosi in astratto escludersi che gli stessi fossero usati solo dalla persona che ne ha rivendicato la disponibilità, risultando peraltro non chiaro a quale attività fosse intento D. P. al momento del sopralluogo della Polizia Provinciale.
In definitiva, la motivazione posta a fondamento del giudizio sull’ascrivibilità dei reati anche all’odierno ricorrente risulta carente, non essendo stato approfondito adeguatamente il ruolo svolto in concreto dall’imputato nella presente vicenda.
Ne consegue che, rispetto alla sola posizione di D. F., la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Lecce per un nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di D. F. A. con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Lecce per nuovo esame.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto da P. F. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 23/11/2018

Fonte:lexambiente.it
 

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