Gli ambientalisti e la trave nell'occhio

Alberto 69

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Giorni fa Report, la nota trasmissione di inchiesta di Rai3, si accorgeva che i Parchi naturali italiani sono più dannosi che utili. Cose che quei cattivoni dei cacciatori dicono da tanto tempo, senza mai essere ascoltati. Come il fatto che alle Cinque Terre franano interi terrazzamenti, perchè le colture tradizionali sono man mano abbandonate, con il risultato che in caso di alluvioni, come quella dello scorso anno, il danno diventa esponenziale. Sempre alla trasmissione della Gabanelli abbiamo sentito dire che è la gestione dei Parchi a contribuire al degrado del nostro paesaggio tipico, formato nei secoli dall'agricoltura e dalla pastorizia. I troppi vincoli imposti, si diceva nel servizio, rendono la vita talmente difficile ai pastori e agli agricoltori, che spesso rinunciano a portare avanti un lavoro tramandato da generazioni.

Forse sembrerà eccessivo metterla in questi termini, ma è senz'altro vero che chi difende quel mondo, contrapposto a quello degli ambientalisti salottieri, sono le stesse persone che da diversi anni chiedono un approccio più vero e genuino con l'ambiente e nei confronti degli animali, entrambi funzionali (come è sempre stato) alla vita degli uomini, e non quindi necessariamente oggetto di venerazione e protezione patologica. I cacciatori pare abbiano avuto ragione anche nell'accusare le associazioni animaliste di badare più ai loro affari che al bene dell'ambiente. Non è il caso di generalizzare, certo. Diciamo che per lo meno, leggendo le notizie sulle inchieste nei confronti di Enpa e Wwf, emerge l'ipotesi di una gestione fraudolenta (sempre secondo l'accusa delle Procure, ma noi ovviamente non ci crediamo) dei tanti soldi che arrivano dallo Stato (attraverso il 5 per mille, circa un milione a testa per le grosse associazioni, ogni anno). Per Enpa si ipotizzano spese improprie come viaggi in resort di lusso, appartamenti in Mar Rosso e addirittura la sostituzione di un'intera dentatura, umana. Al Wwf è imputata una compravendita di animali nel suo centro di Semproniano, oggetto di un'altra inchiesta che ha coinvolto anche la direzione di Roma (anche qui per il momento non ci sono fatti accertati, solo supposizioni).

Le troppe distrazioni del mondo ambientalista, così concentrato sulle pagliuzze altrui da non vedere le travi nei propri occhi, pesano sul quadro generale di una situazione catastrofica. Da una parte gli animalisti si preoccupano di bersagliare la Provincia di Siena perchè autorizza il controllo delle volpi, tanto da costringerla a tornare sui propri passi, e si contestano colpo su colpo tutti i provvedimenti relativi al contenimento e alla gestione faunistica (tra poco rivedremo le solite battaglie sui calendari venatori), dall'altra si omette di contrastare ciò che davvero fa male all'ambiente e alla salute umana. Per esempio a Bagnoli, così come per l'Ilva di Taranto, è emerso che con ogni probabilità l'anomala incidenza di malattie gravi è causata dalla mancata bonifica dell'area e dallo sversamento in mare di sostanze tossiche (amianto). Possiamo continuare tranquillamente citando le multe astronomiche in arrivo per non aver vigilato sulla corretta applicazione delle norme sullo smaltimento di rifiuti (discarica di Malagrotta) e per non aver bonificato gli acquedotti di diverse regioni contaminate da arsenico (stiamo già pagando 300 mila euro al giorno per il Lazio). Questi sono gli enormi problemi ambientali del nostro paese, cui si aggiungono quelli dovuti all'eccessiva presenza di fauna selvatica che crea danni alle coltivazioni e agli allevamenti (quelli tradizionali). Argomenti troppo seri. Gli ambientalisti preferiscono parlare di caccia e Clini, ex ministro all'Ambiente (dirigente Generale del Ministero dal 1989), dell'importanza di cambiarsi poco le mutande, così, almeno, anche se si muore di cancro, si risparmia acqua.

A perderci siamo tutti: le aree protette sono dei recinti vuoti, isolati dal resto del paese, percepiti come carrozzoni buoni solo ad attirare finanziamenti europei e ad ingigantire lo strapotere delle associazioni ambientaliste. Tutto questo mentre il paesaggio tipico delle nostre regioni si perde, soppiantato dal cemento o, nella migliore delle ipotesi, da distese di pannelli solari e boscaglia informe dove proliferano specie animali a volte dannose ma superprotette.

Se il bosco e la fauna selvatica, così come l'aria e l'acqua, sono patrimonio comune, tutti allora dovrebbero sentire il dovere di tutelarli o per lo meno di conoscere come realmente stanno le cose. Ecco perchè non si possono tollerare gli insulti gratuiti e le parole d'odio che vengono rivolte a chi partecipa, con consapevolezza, a quella gestione ancora possibile. La caccia italiana può finire lentamente e indecorosamente, se non si farà nulla, o rinascere, se solo saprà giocarsi la carta della sostenibilità e del valore economico e culturale che già rappresenta. Per farlo, e a parole sembrano essere tutti d'accordo, va combattuta una giusta battaglia di rivendicazione culturale.

I cacciatori facciano sapere sempre di più, e sempre meglio, che ci sono, e che sono loro - con il supporto dei fatti, dei censimenti e delle miriadi di azioni compiute ogni giorno - gli unici a salvaguardare quei boschi e quelle aree umide, altrimenti lasciati al degrado. Solo così forse si può davvero contrastare, sempre che il messaggio arrivi nel modo giusto alla gente, e alla politica, l'azione di chi da decenni cerca di delegittimare e sgretolare quell'antica reputazione che vuole il cacciatore tra le personalità rispettabili in una società fatta di problemi concreti e reali. Dalla nostra c'è la legge e l'oggettivo stato dei fatti. Dall'altra attacchi costruiti su fondamenta fragili, intolleranza, presunzione e fanatismo. Uno spunto per il cambiamento, che BigHunter sicuramente potrà supportare, può venire dal web, per intervenire compatti e rispondere in massa (con una valanga di email per esempio) agli attacchi più ignobili e ingiustificati, pretendendo una pronta risposta dalle istituzioni che a quel punto avrebbero il dovere di dire qualcosa e di sostenere chi da anni porta avanti seri programmi di gestione faunistica sul territorio. Già si notano i primi fermenti. Le nuove generazioni se ne dovranno rendere garanti. E le associazioni venatorie in primo luogo ne dovranno tener conto, ascoltando, rinnovandosi, preparando una nuova classe dirigente che stenta a farsi notare.
 
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