Nel  gergo degli Alpini, "mettere le scarpe al sole" è un detto reso famoso dall’omonimo bellissimo libro di Paolo Monelli, che significa morire in combattimento. Nel molto meno famoso gergo venatorio della mia costiera toscana, lasciare "il cappello a galla" vuol dire cadere a caccia in un padule profondo, dal barchino o scivolando da un argine; se poi questo ci succede con sul groppone tutto il peso di armi, munizioni e balle  degli stampi e richiami vari la cosa, oltrechè antipatica, può diventare pericolosa, infatti se di solito il tutto si risolve in un bel bagno e qualche sacramento, c’è anche quello che ci ha lasciato le penne, ma non quelle del cappello alpino: le sue!! Tra gli altri detti cari ai cacciatori palustri spicca quello del "salto del boddo" o dell’"abboccata".I boddi, in Toscana, sono quei grossi panciuti rospi che troviamo sulle strade con le prime piogge, in parte affaccendati in un quanto mai pericoloso attraversamento; gli altri già tramutati in sogliole dalle automobili. Il boddo è goffo, ed il suo salto è tragicamente corto. Il salto del boddo quindi, è quando mal si calcola la larghezza di quello che ci pare un fossetto da niente, e invece ci si finisce fino alla cintola, fra le risate e gli sberleffi dei colleghi. L’abboccata è quella sgradevolissima sensazione di gelata  infiltrazione subito sotto lo scroto, e poi giù per la gamba dentro lo  stivale a coscia fino al piede, quando bastava ancora un metro per raccogliere quel beccaccino caduto proprio al centro del laghetto. Abboccare per una buona preda può anche andar bene, ma farlo per un porciglione o peggio per una gallinella d’acqua è da fessi; comunque per la verità, alzi la mano chi non gli è mai capitato. D’altronde alla passione non si comanda, come quando il "Gebo" si spogliò e si tuffò, e nuotò 200 metri per una coppiola di folagacce che la corrente si stava portando in mezzo al mare. La storia del cappello a galla è una storia vera, protagonista il sottoscritto, lo sfondo il padule di Castiglione della Pescaia, Grosseto, fine anni ’80. Con Giorgio, senza fare sopralluoghi preventivi ci avventurammo a buio in un posto per noi fino a quel momento sconosciuto, in base a indicazioni molto vaghe che ci aveva dato il Diavolo…ma no il Guardiano degli Inferi, il Diavolo è un amico cacciatore, quello che dal suo capanno tirò giù, di quinto colpo, un aeroplanino radiocomandato da un babbeo che voleva disturbare la quiete del padule..ma questa la racconto un’altra volta. Quindi, folgorati entrambi sulla via di Damasco palustre, io e giorgio, parcheggiata la macchina e attraversata la pineta, un cielo pieno di stelle in quella freddissima mattinata novembrina, ci trovammo a brancolare per sguazzi e argini, fino trovare le paline della vecchia autogestita, descritta anche dal Mazzotti nel suo "cacce di valle e di palude". All’alba, preceduti dal consueto frusciar di ali in avvicinamento, fummo sorvolati da un primo branchetto di fischioni, e ne buttammo giù uno, che fu l’unico, perchè gli altri branchi, veramente numerosi, passavano tutti parecchio lontano. Col giorno scoprimmo che anche più in là, dove erano passati tutti quegli uccelli si poteva cacciare: appostamenti e bossoli vecchi a terra lo testimoniavano, ma non c’era nessuno. Gli animali di "becco schiacciato" erano entrati forse quella notte stessa dal mare. Così, per alcuni giorni ci divertimmo davvero, una varietà impressionante di anatre: codoni, germani, alzavole, fischioni. Poi, inevitabilmente, cominciammo a trovarci gente, sempre di più, fino a che bisognava arrivare sul posto alle 2 di notte per trovare un posto che non fosse in quarta fila.Quella ormai famosa mattina, in compagnia di un altro amico, tale Stenio che mi aveva corteggiato più che la sua fidanzata affinchè ce lo portassi, prestissimo eravamo già con i piedi in guazzo. Mattinata dolce di scirocco, poco vento, cielo nuvoloso. Mentre lui si accoccola nella sua postazione per passare quelle due orette prima del momento buono anche io vado al mio posto, ma non ho sonno, sono distante da lui un cinquanta metri…mi guardo un pò intorno. Di là dall’argine, oltre una specie di fiume, in un vascone per l’allevamento del pesce, soltanto una luce lontana, tenue e baluginante, si rifletteva sull’acqua. Mentre mi accendo una Camel, nel riflesso di
quella luce vedo e conto, in fila indiana, sette anatre.Mi viene da fare una bracconata, nel vascone non si può certo cacciare, è una follìa ma sto bruciando: se passo questo fosso e riesco a vederle faccio una strage. Lì vicino un ombra confusa, oltre le paline, un grosso mezzo meccanico fermo, forse una ruspa. Penso che sono le 3,30, chi mi vede a quest’ora? A lui non dico niente, tanto starà già ronfando. Carico dolcemente l’automatico, vecchio e fedele Breda a mollone di tante battaglie, mi avvicino al fosso, accendo la lampadina mirando in terra e nell’aqua, sono riparato dall’argine alto, cerco un passaggio e quando ormai sto per rinunciare vedo un’isoletta. Con un primo balzo ci posso arrivare, dopodichè sarà un giochetto toccare
l’altra sponda. Mi prende l’orgasmo, vedo già la faccia del mio amico, che mi raddoppia sempre anche adesso, quando gli scodellerò 4 o 5 fischioni nel capanno, o forse colliverdi…mi sembravano belli grossi…

Prendo 3 metri di rincorsa e salto sull’isola, che non era un isola. Era un semplice concentrato galleggiante di cannucce e falasco. Quell’ombra confusa, quel mezzo meccanico era una benna che aveva
appena ripulito e dragato il fosso: c’erano 3 metri di fondo. Vado giù come un piombo, sento il gelo nei capelli; ho il fucile in una mano e la torcia nell’altra, vado sotto un bel pò…una sensazione unica. Come riemergo lancio il fucile sull’argine e quello, scivolando nel fango in discesa, mi ritorna indietro di punta!! Se parte un colpo mi ammazzo col piombo del 4, prima ancora di affogare, che soddisfazione!! Ce la faccio ad arrivare all’argine ma non faccio presa, gli stivali pieni
d’acqua mi tirano giù a bestia, poi, non so come, riemergo grondante, raccolgo quell’ammasso di fango che poi è il fucile, la torcia non funziona, porto d’armi mutande sigarette cartucce, tutto fradicio. Avanzo verso Stenio che non dormiva ed era incuriosito, aveva sentito un grosso SPLUNF e dopo un pò uno SCIAC SCIAC SCIAC in avvicinamento: ero io ed i miei stivali pieni d’acqua.Nonostante le sue sollecitazioni ad andare via rimasi, gocciolante, a caccia. Quell’alba feci uno stacco ad un fischione di quelli da cineteca, glielo bruciai sulla testa, che veniva di dietro e lui lo vide solo cadere.Raccogliamo la preda e ci incamminiamo, ho resistito anche troppo, lo scirocco ha permesso di rimanere; se era grecale o tramontana lo vedi
che corsa alla macchina, forse stasera avrò la febbre, cosa importa? Un ultimo sguardo, da lontano, alla benna, al vascone, al fosso…c’è qualcosa laggiù, in movimento sull’acqua, un fagotto, forse..ma sì sembra un anatra. Dietrofront, "gattonata" di 300 metri, ci avviciniamo dietro le cannucce senza fiatare, mi tremano le gambe per la stanchezza ma anche per la nuova emozione, ci affacciamo pronti al minimo movimento, il respiro si fa più pesante, il dito sul grilletto…guardiamo meglio: da dietro un cespuglio la corrente sta trasportando lentamente il mio cappello….a galla!!!

ALESSANDRO FULCHERIS